Adolescenti: vittime e artefici di tragedie familiari

Seguendo gli episodi drammatici di tragedie familiari e che occupano uno spazio purtroppo ampio nella cronaca di questi giorni, anche nella nostra Sardegna, ci raggiungono le parole del Vescovo di Nuoro:
Impossibile pensare o aspettarsi che le parole spieghino il dolore del dramma familiare avvenuto a Nuoro. Si rabbrividisce solo a tentarci. Giusi (43 anni), Martina (25), Francesco (10), Paolo (69) e Roberto (52). I loro nomi non sono un elenco, ma una storia interrotta, un’umanità negata e tradita. E sono tutti vittime. Anche Roberto, vittima di se stesso, del suo (forse) mal di vivere, che (forse) non amandosi ha voluto trascinare nel baratro della morte chi lo amava, come sua figlia che l’aveva indicato come “l’amore più grande della sua vita”. Questa sconfitta dell’amore ne ricorda anche la sua fragilità, soprattutto quando, pur trovando posto nel nostro cuore, non riesce ad affrontare e a superare le prove della vita.

Purtroppo a questa tragedia ne sono seguite altre, lasciando in ciascuno di noi un senso di impotenza che ci ammutolisce e ripropone con viva preoccupazione la questione educativa dei nostri adolescenti e ragazzi che tendiamo a rinviare e a delegare.

don Alessandro

Il racconto di un’esperienza

Avendo vinto un bando nazionale sul recupero scolastico per minori, abbiamo creato un centro diurno per adolescenti, dagli 11 ai 17 anni. Lo abbiamo chiamato The Tube, come la metropolitana di Londra. Nessun annuncio ufficiale, nessuna etichetta. Due operatori professionisti con l’apertura della sede dalle 15 alle 19, tutti i giorni eccetto il sabato e la domenica.

Per far conoscere l’iniziativa, sono stati agganciati alcuni ragazzi e ragazze della “piazzetta”, uno dei luoghi di ritrovo della città.

La proposta era semplice: ritrovarsi per parlare. Avevo insistito per il recupero scolastico, tema interessante alla scuola e alle famiglie. Gli operatori mi hanno risposto “dopo”.

L’iniziativa è partita da sola. Il tam tam ha funzionato; in un anno sono stati contattati un centinaio di ragazzi senza discriminazioni.

Mi sono meravigliato di una “tale riuscita”. Hanno spiegato che alcune condizioni avevano favorito la frequentazione. Nessuna etichetta, nemmeno sponsor, nessun obiettivo. Praticamente un “luogo” positivo dove ritrovarsi.

Il rapporto con loro è stato paritario: hanno iniziato a svuotare ciò che li preoccupava, anche su temi delicati (droga, rapporti intimi, condizioni familiari).

Sul che cosa fare, il primo obiettivo era mettere ai voti qualche gioco, giorno dopo giorno. La maggioranza vinceva: gioco delle carte, passeggiate, visite ai monumenti. Fino alle 17, poi studio.

Nessuna protesta, con un numero dei ragazzi in crescente aumento.

Ho chiesto agli operatori perché l’iniziativa funzionasse. La risposta è stata lapidaria. Nessuna imposizione ideologica, nessun obiettivo prefissato, nessun adulto maestro. I ragazzi lasciavano il telefonino all’ingresso perché non ne avevano bisogno.

Hanno spiegato che si sono posti nella relazione come adulti con adulti. I ragazzi si sono sentiti rassicurati. Il progetto è stato talmente gradito che le famiglie e le scuole hanno chiesto di intervenire nei pomeriggi.

Purtroppo, con rammarico, per mancanza di risorse, il progetto è stato interrotto dopo tre anni, non avendo avuto sostegno dalle istituzioni civili e religiose.

Alcune considerazioni

La riflessione si è allargata al di là dell’esperienza concreta, arrivando ad alcune conclusioni.

La prima è ovvia. Con i ragazzi nessuno parla e non sanno dove andare. Le famiglie sono in difficoltà.

Superata l’infanzia, i genitori sono disorientati. Non sanno che cosa pensano o facciano il figlio o la figlia. Se sono presenti sono tacciati di oppressione; se sono assenti di menefreghismo.

La scuola non è in condizione di intervenire. Le famiglie hanno tolto agli insegnanti ogni funzione educativa.

Le organizzazioni volontaristiche sono legate a origine e finalità ben definite.

Non esistono luoghi di ritrovo, se non quelli della strada, autogestiti dai giovani stessi. La società civile invoca severità, inventando nuovi reati e aumentando le pene.

Solo chi ha una famiglia solida, buoni risultati a scuola, amici selezionati riesce a uscir fuori dal periodo tumultuoso dell’adolescenza.

Il mondo ecclesiale, con fatica, gestisce un piccolo spicchio di gruppi selezionati. I nostri linguaggi, anche quelli definiti pedagogici, sono lontani dal mondo complesso e confuso dei nostri adolescenti.

I ragazzi di oggi pagano le contraddizioni degli adulti, aggravati dalla libertà di accesso al mondo intero, tramite la rete, e dalla mancanza di forti radici etiche, religiose e civili.

Quando papa Bergoglio invoca una Chiesa in uscita, il pensiero va anche ai più giovani. È esperienza comune che i ragazzi del dopo cresima scompaiono. Una riflessione andrebbe fatta, a partire dalla situazione reale.

Al di là di piccole e sporadiche nuove esperienze, la nostra azione è ancorata alla giovinezza di tempi trascorsi nei quali la cristianità era presente e consolidata.

Se gli Oratori costituiscono un’ottima risposta, pensando a oltre il 90% di ragazzi di oggi che non amano né Chiesa, né la religione, un diverso approccio andrebbe attivato.

Occorre far maturare umanamente la giovane età. Gli operatori di comunità per tossicodipendenti mi hanno confessato che non è la dipendenza dalle droghe a porre i problemi, ma l’immaturità umana che i più giovani vivono.

Non sanno perché si drogano, non sanno che cosa vogliono; non riescono a sognare il futuro. Il primo lavoro è renderli adulti. Solo dopo si può combattere la dipendenza.

L’appello accorato è alle autorità religiose perché inizi una riflessione seria sulle condizioni dei nostri adolescenti.

Confessare che scompaiono non è sufficiente. Qualche progetto andrebbe sperimentato e qualche voce solenne, in occasione di drammi come quello recente, andrebbe detta.

I miracoli che il Signore ha compiuto, tra i quali la guarigione del sordomuto nella Decapoli, indica che il cristianesimo ha la capacità di «guarire ogni sorta di malattia e infermità nel popolo», non con i miracoli che possiamo solo invocare, ma con il “miracolo diffuso” che consiste in attenzione, cura, competenze, risorse alla nostra portata.

Vinicio Albanesi