Facciamo un ripassino. A partire dalla crisi del governo Draghi. Una crisi di cui nessuno vuole assumersi la responsabilità. Del resto, neppure ci hanno messo la faccia, limitandosi a non partecipare al voto di fiducia apposto da Draghi.
Naturalmente, Meloni a parte, che stava all’opposizione quasi in solitaria. E, a ben vedere, essa stessa facendo un’opposizione tutt’altro che arcigna. Mossa più che altro dal calcolo di capitalizzare la rendita da opposizione e, se possibile, di anticipare la fine della legislatura per andare all’incasso profittando di un vento ad essa favorevole. Ma i fatti sono fatti.
La caduta del governo Draghi
A causare la caduta di Draghi sono stati tre soggetti politici ben identificabili: il M5S, forse preterintenzionalmente, ha innescato la miccia disertando il voto di fiducia al governo e, a seguire, Salvini e Berlusconi a rimorchio hanno profittato dell’occasione traguardando all’autostrada che si apriva loro dinnanzi di elezioni che li vedevano e li vedono largamente favoriti. Dunque, un calcolo elettorale. Certo, non una cosa buona per il paese.
Per varie ragioni: la brusca interruzione dell’azione di un governo di responsabilità nazionale che stava facendo la sua parte per fronteggiare emergenze tutt’altro che esaurite (alle quali si è aggiunta la guerra, rispetto al tempo del suo insediamento); un governo che vantava una premiership singolarmente autorevole suscettibile di giocare un ruolo di rilievo in sede europea in una congiuntura quantomai critica; la circostanza che, comunque, la scadenza naturale della legislatura fosse ravvicinata; la precipitazione verso elezioni – anziché un approdo ordinato ad esse – a valle di una campagna elettorale nel cuore delle estate che impedisce ai partiti un’adeguata organizzazione della loro offerta politica, di programmi, alleanze, candidature, e di un civile confronto tra esse.
Una legge elettorale inadeguata
A condizionare ulteriormente, e non positivamente, la competizione la legge elettorale vigente, che pure ci si era impegnati a cambiare quando fu approvata la riforma costituzionale che riduceva di un terzo il numero dei parlamentari.
Tra i suoi numerosi difetti ne segnaliamo tre: la sottrazione al cittadino elettore del diritto di scegliere i propri rappresentanti, pressoché tutti “nominati” dai capi di partito o spartiti tra i capi corrente nel caso dei partiti più grandi; il carattere opaco dei suoi meccanismi e le pluricandidature per i quali si è parlato di “effetto flipper” (un voto in un collegio che fa scattare un eletto in un altro collegio); il vantaggio sproporzionato assicurato alle alleanze elettorali più estese che, poi, si rivelano politicamente e programmaticamente eterogenee, idonee a vincere ma non a governare.
Una legge elettorale che semmai acuisce il senso di estraneità degli elettori e dunque incoraggia il già cospicuo astensionismo e che genera un ceto parlamentare selezionato essenzialmente in ragione della fedeltà ai capi più che alla sua qualità.
Con lo spettacolo avvilente cui abbiamo assistito all’atto della compilazione delle liste. All’insegna dei “paracadutati” e dello spasmodico accaparramento dei “posti garantiti”.
Le suddette regole che presiedono alla competizione e, segnatamente, il decisivo vantaggio competitivo della coalizione più larga e formalmente più unitaria spiega il pronostico largamente favorevole al centrodestra. Al quale i sondaggi assegnano la quasi totalità della rappresentanza nei collegi uninominali, per oltre un terzo dei membri del parlamento.
La destra italiana
E ciò nonostante i limiti di quello schieramento. Per titoli: il suo assetto, i rapporti di forza interni, la sua configurazione a trazione sovranista (Meloni-Salvini), ove la componente cosiddetta moderata e centrista di FI è nettamente subalterna; la circostanza che le sue componenti sono reduci da una diversa collocazione politica rispetto al governo Draghi (Fli all’opposizione, Lega e FI nella maggioranza); la palese diffidenza delle cancellerie internazionali riconducibile sia al dubbio europeismo di Salvini e Meloni e dei loro rapporti con leader e formazioni politiche che certo non brillano per l’ancoraggio alla UE (Le Pen, Orban, Vox, AfD), sia per i rapporti pregressi con Putin di Salvini e Berlusconi; l’annuncio di ricette economiche – dalla Flat tax alle pensioni ai condoni – troppo apertamente demagogiche e manifestamente insostenibili sul piano finanziario e dunque dei vincoli europei; da ultimo, l’irrisolta contesa per la leadership della coalizione (sulla Meloni, Salvini e Berlusconi sono a dir poco reticenti).
Il PD
Sul fronte avverso, il PD svolge il ruolo del major party. Letta ci ha provato, ma non gli è riuscita la strategia del “campo largo”. Il M5S, con la sua maldestra mossa che ha messo in moto la crisi, ha reso difficile al PD – il partito che con più lealtà ha sostenuto Draghi – stringere con esso un’alleanza. Nonostante due anni di collaborazione di governo e molteplici intese sul territorio nelle elezioni amministrative.
Così pure a Letta non è riuscito l’aggancio con Calenda, autore di una sconcertante giravolta e ora, ancorché malvolentieri, associato a Renzi, impegnato a dare corpo al cosiddetto “terzo polo” di stampo liberal-democratico. Distinto dalla sinistra e avverso alla destra.
Forse il pur paziente e volonteroso Letta paga la difficoltà oggettiva di coniugare l’esigenza del “campo largo” (comprensivo di alleati alla sua sinistra, come peraltro si conviene allo statuto ideale del PD quale partito di centrosinistra) e quello di sposare la cosiddetta agenda Draghi, una sorta di Bibbia per i “terzopolisti”.
Difficile politicamente e comunicativamente immaginare una campagna elettorale a due livelli. Un’intesa meramente elettorale e una politicamente più impegnativa, programmatica e di governo. Una motivata dall’esigenza di sconfiggere le destre considerate una minaccia per la democrazia e per le storiche alleanze internazionali; l’altra quale alleanza politica con forze che condividessero un praticabile programma di governo in stretta continuità con l’agenda Draghi.
Il terzo polo e i due narcisi
Quella del terzo polo è impresa difficile. Non possiamo qui indugiare sul mancato accordo tra Letta e Calenda che ha messo in moto l’iniziativa centrista. Al netto delle opposte versioni circa l’intesa prima e la rottura poi, a mio avviso, l’errore del vitalissimo e fumantino leader di Azione sta nella pretesa che il PD potesse stringere con lui un patto esclusivo ed escludente di una qualche intesa anche alla sua sinistra. In concreto, di consegnarsi a una subalternità politica e programmatica su una linea centrista, liberale e liberista.
Il terzo polo sfida una legge elettorale che certo non aiuta le soluzioni terze, ma piuttosto polarizza la competizione. Con il concreto rischio di giovare oggettivamente alle destre delle quali ci si dichiara alternativi.
Ad acuire i problemi l’ego ipertrofico e il protagonismo dei suoi due leader, Calenda e Renzi, nonché la malcelata rivalità tra loro.
Secondo simulazioni e analisti, essi potrebbero vincere la loro scommessa solo a due precise condizioni: un consenso che si attestasse intorno al 10% (al momento li si accredita del 6%, ma siamo solo agli inizi della campagna elettorale) e che i consensi siano sottratti alla destra, plausibilmente attingendo all’elettorato moderato del bacino che fu di Fi e che mal sopporta la soggezione al binomio Meloni-Salvini.
Obiettivo dichiarato del terzo polo: scongiurare la vittoria delle destre e propiziare una “maggioranza Ursula”, dal nome della presidente della Commisione europea che fu eletta da un fronte che va dai Popolari ai Socialisti ai Liberali ai Verdi. Dunque, per stare a casa nostra, da FI al PD, compresi (furono decisivi) i 5 stelle, pur tanto detestati da Calenda e da Renzi.
Una maggioranza che amerebbe di poter reinsediare Draghi a palazzo Chigi. Dettaglio: ammesso che egli fosse disponibile.
Tra i limiti di chi brandisce l’agenda Draghi ne segnalerei due. Il primo, più che un programma, l’agenda Draghi si concreta in due cose: l’autorevolezza del premier e, al più, la giusta priorità assegnata all’implementazione del Pnrr, le cui riforme connesse tuttavia possono essere diversamente concepite e realizzate (esemplare il caso del fisco e della giustizia, questioni non tecniche ma sommamente politiche).
Ne sortisce un secondo limite: la retorica di Calenda sul buon senso e sul pragmatismo delle sue soluzioni in opposizione alle ricette a suo dire “ideologiche” della destra e della sinistra. Una presunzione e una semplificazione. Come se non fosse altrettanto ideologica la pretesa della “soluzione unica”, naturalmente la sua. I programmi sempre si inscrivono dentro visioni, anche quando lo si nega o non se ne è consapevoli.
I 5Stelle
Infine il M5S. Esso sembra in preda a una spirale autodistruttiva dalla quale non riesce a uscire. Pur avendo conosciuto una sua innegabile evoluzione rispetto alla sua originaria vena protestataria e antipolitica.
Da ultimo, il trauma della scissione capeggiata da Di Maio a ridosso della crisi di governo con una motivazione francamente poco plausibile, quella di difendere l’esecutivo. Una decisione che, irrigidendo il movimento, ha semmai concorso a innescare la crisi stessa. E tuttavia i 5 stelle sono tutt’ora accreditati di un consenso intorno al 10%.
È stato un grave errore da parte loro avere propiziato la crisi con ciò che ne è seguito. A cominciare dal divorzio con il PD. Ora Conte, la cui leadership sembra sempre in discussione, sta provando ad accreditare il M5S come formazione laburista a sinistra di un PD dipinto come appiattito su un asse centrista.
Incidentalmente: curioso destino quello del PD, accusato alternativamente di subalternità al centro o alla sinistra a seconda dei punti di vista. Forzature da campagna elettorale sì, ma forse anche problema irrisolto che si trascina sin dalla sua nascita. Può aiutare a comprendere la questione – ma essa meriterebbe ben altra tematizzazione che non ci è dato di svolgere qui – la circostanza che il PD nacque nel quadro di una legge elettorale nitidamente maggioritaria (il Mattarellum) e di un incipiente bipolarismo al limite del bipartitismo che ora si è sfarinato.
Un quadro che generava partiti grandi e inclusivi a cosiddetta vocazione maggioritaria. Nel caso del PD appunto di centrosinistra.
Ma torniamo al M5S: la sua metamorfosi quale partito che corrisponda a una domanda di sinistra oggi inevasa (si veda la posizione sulla guerra) è forse la sola plausibile. Purtroppo è decisamente tardiva – dopo lunghi anni nei quali anch’esso si è rifiutato di declinare le proprie generalità lungo l’asse destra-sinistra – e, a torto o a ragione, ha un sapore improvvisato e strumentale.
Due soli esempi: l’errore di cui si è detto circa la crisi del governo che ha condotto alla rottura (prevedibilissima, giusta o sbagliata che sia) con il PD; la reazione di immediato rigetto della proposta avanzata da Letta (“una rara cosa di sinistra” avrebbe commentato Nanni Moretti) di una dote ai giovani finanziata da una piccolissima tassa sui patrimoni oltre i cinque milioni.
Un riflesso condizionato, quello del M5S, che fa sospettare il residuo di un gene populista o comunque refrattario a chiare scelte di campo.
Questo, molto approssimativamente, il quadro al presente. Ma la partita è in corso e sarà necessario seguirne gli sviluppi.
di: Franco Monaco