Letture:
Amos 6,1.4-7; Salmo 145; 1 Timoteo 6, 11-16; Luca 16, 19-31
Storia di un ricco, di un mendicante e di un “grande abisso” scavato tra le persone. Che cosa scava fossati tra noi e ci separa? Come si scavalcano? Storia da cui emerge il principio etico e morale decisivo: prendersi cura dell’umano contro il disumano. Primo tempo: due protagonisti che si incrociano e non si parlano, uno è vestito di piaghe, l’altro di porpora; uno vive come un nababbo, in una casa lussuosa, l’altro è malato, abita la strada, disputa qualche briciola ai cani. È questo il mondo sognato da Dio per i suoi figli? Un Dio che non è mai nominato nella parabola, eppure è lì: non abita la luce ma le piaghe di un povero; non c’è posto per lui dentro il palazzo, perché Dio non è presente dove è assente il cuore. Forse il ricco è perfino un devoto e prega: “o Dio tendi l’orecchio alla mia supplica”, mentre è sordo al lamento del povero. Lo scavalca ogni giorno come si fa con una pozzanghera. Di fermarsi, di toccarlo neppure l’idea: il povero è invisibile a chi ha perduto gli occhi del cuore. Quanti invisibili nelle nostre città, nei nostri paesi! Attenzione agli invisibili, vi si rifugia l’eterno.
Il ricco non danneggia Lazzaro, non gli fa del male. Fa qualcosa di peggio: non lo fa esistere, lo riduce a un rifiuto, a un nulla. Nel suo cuore l’ha ucciso. «Il vero nemico della fede è il narcisismo, non l’ateismo» (K. Doria). Per Narciso nessuno esiste. Invece un samaritano che era in viaggio, lo vide, fu mosso a pietà, scese da cavallo, si chinò su quell’uomo mezzo morto. Vedere, commuoversi, scendere, toccare, verbi umanissimi, i primi affinché la nostra terra sia abitata non dalla ferocia ma dalla tenerezza. Chi non accoglie l’altro, in realtà isola se stesso, è lui la prima vittima del “grande abisso” , dell’esclusione. Secondo tempo: il povero e il ricco muoiono, e la parabola li colloca agli antipodi, come già era sulla terra. «Ti prego, padre Abramo, manda Lazzaro con una goccia d’acqua sulla punta del dito». Una gocciolina per varcare l’abisso.
Che ti costa, padre Abramo, un piccolo miracolo! Una parola sola per i miei cinque fratelli! E invece no, perché non è il ritorno di un morto che convertirà qualcuno, è la vita e i viventi. Non sono i miracoli a cambiare la nostra traiettoria, non apparizioni o segni, la terra è già piena di miracoli, piena di profeti: hanno i profeti, ascoltino quelli; hanno il Vangelo, lo ascoltino! Di più ancora: la terra è piena di poveri Lazzari, li ascoltino, li guardino, li tocchino. «Il primo miracolo è accorgerci che l’altro esiste» (S. Weil). Non c’è evento soprannaturale che valga il grido dei poveri. O il loro silenzio. La cura delle creature è la sola misura dell’eternità.
P. Ermes Ronchi
Il vangelo di questa domenica incomincia con queste parole: «C’era un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti». È da notare che Gesù non dà il nome al ricco egoista: quest’uomo è definito unicamente da ciò che possiede; egli ammassa avidamente beni per sé, illudendosi forse di difendersi in questo modo dalla paura della morte, come se avere molte cose potesse impedire l’evento che lo attende al termine della sua esistenza. Chi vive per sé è un fallito e non ha nome; è niente, è zero perché ha chiuso il suo cuore all’amore di Dio. Gesù continua dicendo che quest’uomo, accecato dalla sua brama idolatra, non si accorge di «un povero, di nome Lazzaro, che stava alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla sua tavola». Cristo dà al mendicante un nome, Lazzaro, che significa: «Dio aiuta». Sì, quest’uomo ha un nome perché soffre, subisce ingiustizia. Lazzaro è l’uomo visitato dalla croce, l’uomo che apparentemente non conta nulla e viene calpestato, l’uomo che tutti rifiutano, che nessuno invidierebbe.
Gesù continua dicendo che «un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli accanto ad Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto». A questo ribaltamento delle sorti terrene segue un dialogo tra il ricco e Abramo. In mezzo ai tormenti il primo si rivolge al patriarca chiedendogli: «Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell’acqua la punta del dito e a bagnarmi la lingua, perché soffro terribilmente in questa fiamma». Ma si sente rispondere da Abramo: «Figlio, ricordati che, nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali; ma ora in questo modo lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti». Con queste parole Gesù non vuole impaurirci o descrivere «le pene dell’inferno», come siamo soliti pensare, ma semplicemente ricordarci che nella vita può esserci un «troppo tardi»: occorre vivere il presente come l’oggi di Dio, sapendo che ci sarà il giudizio di Dio alla fine dei tempi, nel quale l’Onnipotente ci chiamerà a rendere conto del nostro comportamento e «renderà a ciascuno secondo le sue opere» (cf Sal 62, 13; Rm 2, 6; Ap 2, 23).
Ma il ricco insiste, pregando Abramo di inviare Lazzaro ad avvertire i suoi fratelli di cambiare vita, ammonendoli «severamente» su ciò che li attende dopo la morte. Egli è convinto che «se qualcuno dai morti andrà da loro, si convertiranno». Si sente però rispondere: «Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro… Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti». Ciò significa che la fede non si fonda su miracoli o su eventi straordinari, ma sull’ascolto della parola di Dio (cf Rm 10, 17) contenuta nelle Scritture dell’Antico e del Nuovo Testamento. Questa parabola ci insegna che la situazione attuale di ingiustizia e di cieca noncuranza dell’indigente verrà ribaltata da Dio, secondo l’insegnamento di Gesù, alla fine della vita. Basta pensare al cantico di Maria e alle beatitudini. Il ricco, quindi, non è condannato semplicemente perché è ricco, assolutamente no! È condannato perché indifferente, noncurante, chiuso agli altri, egoista. Il comportamento del ricco «Epulone» si chiama ingiustizia; quell’ingiustizia tanto denunciata dai profeti nell’Antico Testamento (cf Am 6, 1-7; Ger 22, 13-19; Ab 2, 6-11), quanto da Gesù e dagli apostoli nel Nuovo (cf Lc 6, 21.24; Gc 2, 5-9; 5, 1-6).
Nella I Lettura, infatti, abbiamo ascoltato il profeta Amos il quale ha davanti a sé lo spettacolo del guadagno facile durante il regno di Geroboamo II in Samaria: egli vede i potenti e i ricchi che gozzovigliano e non si preoccupano del benessere dei poveri e del destino della nazione. Questi «spensierati», che non hanno ascoltato a tempo debito gli ammonimenti del profeta, non si rendono conto che non solo manderanno in rovina tutta la nazione, ma saranno i primi «ad andare in esilio in testa ai deportati e (solo allora) cesserà l’orgia dei dissoluti». La ricchezza, dunque, non è la vera sicurezza. Oggi queste parole suonano stonate ai nostri orecchi, non vogliamo più ascoltarle. San Paolo nella prima Lettera ai Corinzi, mentre eleva l’inno della carità, ci ricorda che senza di essa noi «non siamo niente» (cf 1Cor 13, 1-3). Le persone che non amano, non hanno carità, le istituzioni che non sono al servizio dei cittadini e del bene comune, davanti a Dio, sono come inesistenti.
Il brano della Letta a Timoteo è preceduto da queste parole: «L’avidità del denaro infatti è la radice di tutti i mali; presi da questo desiderio, alcuni hanno deviato dalla fede e si sono procurati molti tormenti» (cf 1Tm 6, 10). Dopo questa constatazione l’apostolo Paolo esorta Timoteo dicendo: «Tu, uomo di Dio, evita queste cose; tendi invece alla giustizia, alla pietà, alla fede, alla carità, alla pazienza, alla mitezza. Combatti la buona battaglia della fede, cerca di raggiungere la vita eterna alla quale sei stato chiamato e per la quale hai fatto la tua bella professione di fede davanti a molti testimoni» (II Lettura). La fede, dunque, se è autentica, se «si rende operosa per mezzo della carità» (cf Gal 5, 6), si traduce in azioni concrete ispirate sull’amore fraterno. È infatti l’amore l’unica realtà su cui saremo giudicati al termine della nostra vita. Ricordiamoci le parole di Giovanni: «Se uno ha ricchezze di questo mondo e, vedendo il suo fratello in necessità, gli chiude il proprio cuore, come rimane in lui l’amore di Dio? Figlioli, non amiamo a parole né con la lingua, ma con i fatti e nella verità» (cf 1Gv 3, 17-18).
Don Lucio D’Abbraccio