Poveri e parrocchie: superare il dannoso assistenzialismo

La giornata mondiale dei poveri, appena celebrata, dovrebbe indurre a una riflessione collettiva su un problema che non è di un giorno ma di tutti i giorni.

Ne stanno parlando a più voci il mondo civile ed ecclesiale, evidenziando la cronica difficoltà di affrontare e arginare il crescente fenomeno della povertà.

Non siamo usciti dall’assistenzialismo

Apprezzando decisamente la necessità di dare adeguata informazione dei problematici andamenti in atto nella società italiana, mi permetto di aggiungere alcune personalissime osservazioni e considerazioni, precisando che il movente iniziale di questi pensieri è stato il resoconto dell’ottimo Paolo Lambruschi (su Avvenire del 18 ottobre u.s.) della presentazione del rapporto sulla povertà della Caritas L’anello debole e, nello specifico, una mia personale reazione all’uso dei termini “assistiti” e “beneficiari”, usati per i destinatari dei servizi di cui molte Caritas sono attive protagoniste

Non voglio fare del nominalismo, ma in termini come questi ravviso il sapore pietistico di una filantropia e beneficienza ottocentesche, che l’azione pedagogica di oltre cinquant’anni di Caritas dovrebbe ormai aver espulso dal vocabolario ecclesiale. E anche da quello sociale.

Forse sta succedendo che il ritorno delle vecchie povertà, accanto alle nuove, e le prospettive di crescente impoverimento della società italiana siano fenomeni complessivi che suscitano in molti il desiderio di fare qualcosa, e che le più immediate risposte appaiano l’assistenza e la beneficienza.

Il rischio è fermarsi lì o ritornare lì, a gesti che soccorrono nell’immediato ma mantengono la distanza o addirittura potrebbero essere funzionali ad andamenti socioeconomici che lasciano immutati e insuperabili i privilegi, gli arricchimenti e le differenze.

Giudico della stessa natura e di analogo effetto – al di là della buona fede di chi vi aderisce – i numerosi appelli di sottoscrivere contributi di pochi euro per varie iniziative contro la fame e le malattie che ricorrono nelle reti tv.

Il ruolo della Caritas

Mentre ciò avviene sul versante sociale, sul versante ecclesiale potremmo correre il rischio di dimenticare quello che un documento della CEI scriveva all’inizio degli anni ’90: «La carità è molto più impegnativa di una beneficenza occasionale: la prima coinvolge e crea un legame, la seconda si accontenta di un gesto» (Evangelizzazione e testimonianza della carità, n. 39).

Vado ancora più indietro, al discorso con cui Paolo VI tenne a battesimo le nascenti Caritas (italiana e diocesane) il 27 settembre 1972: «… la vostra azione non può esaurire i suoi compiti nella pura distribuzione di aiuto ai fratelli bisognosi… Al di sopra di questo aspetto puramente materiale della vostra attività emerge la sua prevalente funzione pedagogica, il suo aspetto spirituale che non si misura con cifre e bilanci, ma con la capacità che essa ha di sensibilizzare le Chiese locali e i singoli fedeli al senso e al dovere della carità in forme consone ai bisogni e ai tempi».

Agire su due livelli

Tra le risposte ai bisogni di questi tempi possono esserci certamente e assolutamente, nell’immediato, il pacco spesa e l’aiuto per pagare le bollette della luce o del gas. Ma non possiamo fermarci lì! Oltre a organizzare queste e ad altre forme necessarie di soccorso concreto, ritengo si possa e si debba agire su due livelli:

1) far crescere la coscienza ecclesiale verso il dovere di una carità fattiva che si traduca in impegni creativi e costanti di accoglienza, ospitalità, accompagnamento, prossimità e condivisione, da proporre a parrocchie, famiglie, associazioni; non ci si può accontentare di gestire nelle parrocchie – o livelli più ampi: vicariali o diocesani – l’erogazione di alcuni servizi a cui rinviare “i poveri”! Una Caritas parrocchiale che soltanto distribuisce ma anche non educa, anima e provoca l’intera comunità, compromette la sua stessa natura;

2) agire sulla politica e sull’economia per intaccare i perversi andamenti di concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi e di scivolamento verso la povertà di fasce sempre più ampie di popolazione.

Purtroppo – è esperienza recentissima – la lotta alla povertà ha avuto ben poco spazio nei programmi elettorali dei partiti e nelle propagande dei candidati; sta di fatto che moltissimi esponenti politici e pubblici amministratori elogiano il volontariato perché interviene a tappare le falle di uno stato sempre meno sociale, ma si dimostrano incapaci di progettare – col concorso del volontariato e delle stesse Caritas – adeguate contromisure nei confronti del crescente disagio sociale.

Siamo ben lontani dai tempi in cui si auspicava che quello che oggi viene donato per carità cristiana o solidarietà umana, domani sarà dato per giustizia. Allora si teorizzava un passaggio dalla beneficienza ai diritti rispetto al quale si sta tornando indietro, e il vocabolario assistenzialista ne è la spia!

E in ambito ecclesiale?

In ambito ecclesiale, urge un serio esame di coscienza – il cammino sinodale può fornirne l’occasione – per diventare prima di tutto una Chiesa “dalla carità” e di conseguenza Chiesa “della carità”. Questo vuol dire attingere alla profondità della carità trinitaria e cristologica, magari scomodando i teologi come è sempre stato costume della Caritas, per crescere nell’autocoscienza ecclesiale oblativa di tutto il popolo di Dio, e partendo da qui sostenere le dimensioni operative, sempre curando la “pedagogia dei fatti”: educare al dono facendo, facendo fare, accompagnando il fare con il riflettere. E magari anche con il pregare.

Chiediamoci se non stiamo correndo il rischio di diventare una Chiesa e una Caritas tutte assorbite dal fare per i poveri senza trovare tempo e modo per riflettere sulle cause delle povertà e senza compiere verso l’intera comunità – ecclesiale e civile – un’opera di educazione, stimolo e direi conversione nella prospettiva della condivisione, rivolgendoci con parresia a tutti coloro che vivono in condizioni agiate o quanto meno dignitose; e senza coscientizzare i poveri (delle varie forme di povertà, disagio, emarginazione…) sui loro diritti, senza avviare per/con loro cammini di inclusione, dignità, autonomia, responsabilità… senza almeno provarci!

A mo’ di esempio: affiancare la distribuzione di aiuti alimentari (consegna pacchi spesa, gestione di empori della solidarietà ecc.) con spazi educativi in cui i percettori di aiuti ricevono anche indicazioni e proposte di corretta alimentazione, risparmio energetico, sobrietà…

Inoltre, nella prospettiva dell’uscita dalla povertà attraverso l’esercizio dei diritti/doveri, va percorsa – con consapevolezza e continuità più forti di quanto attualmente non avvenga – la strada del diritto al lavoro, a partire dal coinvolgimento in attività di pubblica utilità delle persone destinatarie di aiuti; per poi estenderla, con le collaborazioni e gli agganci giusti, a percorsi formativi orientati all’inserimento lavorativo.

Sedersi ai tavoli della programmazione

Un ulteriore aspetto importante e forse decisivo, per un diverso modo di contrastare la povertà e l’emarginazione, è la disponibilità delle Caritas – ma anche del volontariato e dell’intera galassia del terzo settore – a sedere ai tavoli in cui si programmano e si attuano le politiche sociali, a partire dal concreto dei territori e fino all’interlocuzione col Governo e il Parlamento.

In alcuni casi si tratterà di chiedere di essere ammessi dimostrando di averne titolo e competenza, in altre realtà addirittura di promuovere, evitando lo spezzettamento di risposte e favorendo invece l’approccio partecipato e la convergenza di tutte le forze della solidarietà.

Per svolgere queste azioni, ci sarà bisogno, oltre che di presentare le situazioni di povertà come già avviene attraverso i rapporti che la Caritas produce sia a livello nazionale che territoriale, di promuovere studi e ricerche al fine di acquisire competenze e proporre sperimentazioni in materia di politiche sociali (la dimensione dello studio e della ricerca è esplicitamente presente nei compiti statutari di Caritas italiana fin dalle sue origini).

Complementare all’aspetto ecclesiale c’è la dimensione civile, e quindi le motivazioni, la consapevolezza e la qualità di chi, nella pubblica amministrazione, è chiamato a responsabilità di governo ai vari livelli, dal piccolo comune fino ai vertici della repubblica.

La comunità ecclesiale dovrebbe fare un serio esame di coscienza sul proprio contributo all’educazione civica di base, per verificare quanto il cristiano medio abbia consapevolezza circa quei «doveri inderogabili di solidarietà politica economica e sociale» enunciati nell’art. 2 della Costituzione (non a caso per la formulazione di quel testo fu determinate l’apporto di un cattolico del calibro di Giorgio La Pira!).

Chiediamoci se e quanto la disaffezione verso la “cosa pubblica” – dall’assenteismo elettorale all’evasione fiscale – non si sia diffusa anche trai buoni cristiani, nel popolo delle parrocchie e nel vasto mondo delle aggregazioni cattoliche… Per poi riflettere sul rarefarsi di presenze cattoliche significative e credibili tra gli eletti nelle diverse sedi di partecipazione democratica, e constatare la palese assenza di coraggiose traduzioni dell’insegnamento sociale della Chiesa.

C’è qualcuno, da qualche parte, che si stia chiedendo se qualcosa della Laudato si’ e della Fratelli tutti sia applicabile alla vita di un Comune, di una Regione, dello Stato?

Un’ultima cosa: molte case canoniche e conventi si stanno svuotando per mancanza di personale ecclesiastico che le abiti, in conseguenza dell’evidente crisi delle vocazioni alla vita consacrata. Nel frattempo, una delle forme di povertà registrate da molti centri di ascolto delle Caritas (come pure dagli assessorati alle politiche sociali) è l’emergenza abitativa: famiglie non in grado di sostenere il costo degli affitti, accoglienza di profughi e migranti…

La Chiesa potrebbe decisamente fare qualcosa di più di quanto non stia facendo adesso, soprattutto promuovendo coraggiose e lungimiranti sinergie con gli enti locali e il terzo settore.

Antonio Cecconi