IV domenica del tempo ordinario; commento al vangelo

Letture:
Sofonia 2,3; 3,12-13; Salmo 145; Prima Corinzi 1,26-31; Marco 5,1-12a

Abbiamo davanti parole abissali, delle quali non riusciamo a vedere il fondo, le più alte della storia dell’umanità (Gandhi).

È la prima lezione del maestro Gesù, all’aperto, sulla collina, il lago come sfondo, e come primo argomento ha scelto la felicità. Perché è la cosa che più ci manca, che tutti cerchiamo, in tutti i modi, in tutti i giorni. Perché la vita è, e non può che essere, una continua ricerca di felicità, perché Dio vuole figli felici.

Il giovane rabbi sembra conoscerne il segreto e lo riassume così: Dio regala gioia a chi produce amore, aggiunge vita a chi edifica pace. Si erge controcorrente rispetto a tutti i nuovi o vecchi maestri, quelli affascinati dalla realizzazione di sé, ammaliati dalla ricerca del proprio bene, che riferiscono tutto a sé stessi.

Il maestro del vivere mette in fila poveri, miti, affamati, gente dal cuore limpido e buono, quelli che si interessano del bene comune, che hanno gli occhi negli occhi e nel cuore degli altri. Giudicati perdenti, bastonati dalla vita, e invece sono gli uomini più veri e più liberi. E per loro Gesù pronuncia, con monotonia divina, per ben nove volte un termine tipico della cultura biblica, quel “beati” che è una parola-spia, che ritorna più di centodieci volte nella Sacra Scrittura. Che non si limita a indicare solo un’emozione, fosse pure la più bella e rara e desiderata. Qualcosa forse del suo ricco significato possiamo intuirlo quando, aprendo il libro dei Salmi, il libro della nostra vita verticale, ci imbattiamo da subito, dalla prima parola del primo salmo, in quel “beato l’uomo che non percorre la via dei criminali”.

Illuminante la traduzione dall’ebraico che ne ricava A. Chouraqui: “beato” significa “in cammino, in piedi, in marcia, avanti voi che non camminate sulla strada del male”, Dio cammina con voi. Beati, avanti, non fermatevi voi ostinati nel proporvi giustizia, non lasciatevi cadere le braccia, non arrendetevi. Tu che costruisci oasi di pace, che preferisci la pace alla vittoria, continua, è la via giusta, non ti fermare, non deviare, avanti, perché questa strada va diritta verso la fioritura felice dell’essere, verso cieli nuovi e terra nuova, fa nascere uomini più liberi e più veri. Gesù mette in relazione la felicità con la giustizia, per due volte, con la pace, la mitezza, il cuore limpido, la misericordia. Lo fa perché la felicità è relazione, si fonda sul dare e sul ricevere ciò che nutre, cura, custodisce, fa fiorire la vita. E sa posare una carezza sull’anima. E anche a chi ha pianto molto un angelo misterioso annuncia: ricomincia, riprendi, il Signore è con te, fascia il cuore, apre futuro. Tu occupati della vita di qualcuno e Dio si occuperà della tua.

P. Ermes Ronchi
Avvenire

Il Vangelo di oggi è il brano delle Beatitudini. Per capire lo spirito e la ragione profonda delle Beatitudini bisogna partire dalla parola che risuona all’inizio di ognuna di esse e da cui esse hanno preso il nome: beati!. Nel linguaggio di Gesù, “beato” non indica il gradino che precede la canonizzazione e il titolo di santo; significa semplicemente “felice”. Le beatitudini, dunque, sono otto gradini verso la felicità. Nel Vangelo abbiamo ascoltato che Gesù proclama “beati” i poveri in spirito, gli afflitti, i misericordiosi, quanti hanno fame della giustizia, i puri di cuori, i perseguitati. Non si tratta di una nuova ideologia, ma di un insegnamento che viene dall’alto e tocca la condizione umana, proprio quella che il Signore, incarnandosi, ha voluto assumere, per salvarla. Perciò, «il Discorso della montagna è diretto a tutto il mondo, nel presente e nel futuro, e può essere compreso e vissuto solo nella sequela di Gesù, nel camminare con Lui» (cf J. Ratzinger, Gesù di Nazaret, 92).

Le Beatitudini, definite da papa Francesco «la carta di identità del cristiano», sono un nuovo programma di vita, per liberarsi dai falsi valori del mondo e aprirsi ai veri beni, presenti e futuri. Quando, infatti, Dio consola, sazia la fame di giustizia, asciuga le lacrime degli afflitti, significa che, oltre a ricompensare ciascuno in modo sensibile, apre il Regno dei cieli. «Le Beatitudini sono la trasposizione della croce e della risurrezione nell’esistenza dei discepoli» (cf ibid., 97). Esse rispecchiano la vita del Figlio di Dio che si lascia perseguitare, disprezzare fino alla condanna a morte, affinché agli uomini sia donata la salvezza. Afferma un antico eremita: «Le Beatitudini sono doni di Dio, e dobbiamo rendergli grandi grazie per esse e per le ricompense che ne derivano, cioè il Regno dei cieli nel secolo futuro, la consolazione qui, la pienezza di ogni bene e misericordia da parte di Dio una volta che si sia divenuti immagine del Cristo sulla terra» (Pietro di Damasco, in Filocalia, vol.3, 79).

Accostiamoci ora alla prima Beatitudine, quella dei poveri – «Beati i poveri in spirito» -, che è considerata giustamente la matrice di tutte le altre, quella di cui le altre sette sono come delle specificazioni. L’evangelista Matteo accentua la povertà come atteggiamento interiore, come umiltà. Infatti, il testo che abbiamo ascoltato, ci fa riflettere sulla povertà di spirito. In questo senso ci orienta anche la liturgia con la scelta della Prima lettura, dal profeta Sofonia. Essa ci aiuta a capire in che consiste la povertà di spirito: «Lascerò in mezzo a te un popolo umile e povero. Confiderà nel nome del Signore il resto d’Israele».

Ebbene, in questo testo, sono messi in luce due elementi. Il primo consiste nell’assenza di autosufficienza, di orgoglio, sia personale che nazionale, nel riconoscimento del proprio peccato e del bisogno di salvezza. Si tratta di un modo nuovo, religiosamente più affinato, di porsi dell’uomo di fronte a Dio. L’uomo non si percepisce più solo come l’alleato, o il suddito di Dio che, grazie all’osservanza della legge e alle prestazioni del culto, può vantare diritti e crediti davanti a lui, ma come uno che dipende in tutto e per tutto da Dio, al quale perciò non può rapportarsi che come debitore di tutto, in spirito di pura gratitudine. Nasce in questo contesto l’idea del cuore contrito e dello spirito umiliato, così vicina a quella della povertà di spirito (cf Is 66,2; Dan 3,39).

Il secondo elemento è la fiducia incondizionata in Dio, l’abbandono confidente: «Confiderà nel Signore il resto d’Israele». I cosiddetti “salmi dei poveri” sono pieni di espressioni commoventi di fiducia in Dio: «Questo povero grida e il Signore lo ascolta» (cf Sal 34,7); «Io sono povero e infelice, di me ha cura il Signore» (cf Sal 40,18). Umiltà e fiducia in Dio, i due elementi essenziali dell’ideale di questa povertà spirituale, sono meravigliosamente riuniti nel salmo, detto dell’infanzia spirituale:

«Signore, non si esalta il mio cuore
né i miei occhi guardano in alto;
non vado cercando cose grandi
né meraviglie più alte di me.
Io invece resto quieto e sereno:
come un bimbo svezzato in braccio a sua madre,
come un bimbo svezzato è in me l’anima mia.
Israele attenda il Signore,
da ora e per sempre» (cf Sal 131).

Il Vangelo delle Beatitudini, dunque, si commenta con la storia stessa della Chiesa, la storia della santità cristiana, perché – come scrive san Paolo – «quello che è stolto per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i sapienti; quello che è debole per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i forti; quello che è ignobile e disprezzato per il mondo, quello che è nulla, Dio lo ha scelto per ridurre al nulla le cose che sono» (cf 1Cor 1,27-28). Per questo la Chiesa non teme la povertà, il disprezzo, la persecuzione in una società spesso attratta dal benessere materiale e dal potere mondano. Sant’Agostino ci ricorda che «non giova soffrire questi mali, ma sopportarli per il nome di Gesù, non solo con animo sereno, ma anche con gioia» (cf De sermone Domini in monte, I, 5,13: CCL 35,13). Invochiamo la Vergine Maria, la Beata per eccellenza, chiedendo la forza di «cercare il Signore» e di seguirlo sempre, con gioia, sulla via delle beatitudini.

Don Lucio D’Abbraccio