In una sua catechesi biblica papa Francesco ha affermato:
I salmi non sono testi nati a tavolino; sono invocazioni, spesso drammatiche, che sgorgano dal vivo dell’esistenza. Per pregarli basta essere quello che siamo. Non dobbiamo dimenticare che per pregare bene dobbiamo pregare così come siamo, non truccati. […] Nei salmi sentiamo le voci di oranti in carne e ossa, la cui vita, come quella di tutti, è irta di problemi, di fatiche, di incertezze. Il salmista non contesta in maniera radicale questa sofferenza: sa che essa appartiene al vivere. Nei salmi, però, la sofferenza si trasforma in domanda […] fino allo “scandalo” supremo, quello della morte. […] L’orante dei salmi chiede a Dio di intervenire laddove tutti gli sforzi umani sono vani. Ecco perché la preghiera, già in se stessa, è via di salvezza e inizio di salvezza. (Udienza generale del 14 ottobre 2020)
Parole che enunciano come meglio non si potrebbe la grande virtù della parrhēsía, cioè il coraggio e la franchezza nell’esprimere se stessi. La libertà di dirsi di fronte a Dio senza alcuna remora, parlando come a un amico (cf. Es 33,11): questo, e molto altro, ci insegnano i Salmi.
Il “ricatto d’amore”
Una delle forme più evidenti di questa libertà si potrebbe definire “ricatto d’amore” nei confronti del Signore Dio. Eccone qualche esempio:
Ritorna, Signore, portami in salvo,
salvami a motivo del tuo amore,
perché nella morte non c’è ricordo di te,
negli inferi chi ti rende grazie? (Sal 6,6)
A te, Signore, grido,
il mio Signore supplico:
«Quale vantaggio dal mio sangue,
dalla mia discesa nella fossa?
Ti renderà forse grazie la polvere
o annuncerà forse la tua fedeltà?
Ascolta, Signore, e abbi pietà di me,
Signore, sii tu il mio aiuto» (Sal 30,9-11).
Non i morti lodano il Signore,
né tutti quelli che scendono nel silenzio,
ma noi benediciamo il Signore
da ora e per sempre (Sal 115,17-18).
Anche qui non vi è bisogno di troppi commenti. Possiamo solo restare ammirati dalla preghiera del salmista il quale, rivolgendosi con franchezza al Signore, gli pone implicitamente questa domanda: sei consapevole che la mia morte ti priverebbe di un essere vivente che canta le tue lodi? Come farai senza il mio amore, che testimonia il tuo amore?
Salmo 88: «Si narra forse il tuo amore nel sepolcro?»
Il testo che senza dubbio meglio esprime, con drammatica libertà, questa componente umanissima del pregare è il Sal 88, abitualmente ritenuto il più oscuro del Salterio. L’orante è in una situazione di perdita del senso della vita, di prossimità alla morte, e la sua invocazione non riceve risposta: eppure si ostina a credere in Dio, resta tenacemente legato a lui, tanto che il suo amore per Dio sembra vincere la sua stessa fede.
Il testo si apre con una breve invocazione, colma di fiducia:
Signore, Dio della mia salvezza
di giorno grido, di notte sto davanti a te.
Giunga al tuo volto la mia preghiera,
piega il tuo orecchio al mio lamento (vv. 2-3).
Seguono due strofe (vv. 4-6) caratterizzate dalla tonalità del lamento: l’esistenza di colui che prega è «sazia di mali», egli è sull’orlo degli inferi, la sua situazione è tenebrosa «come quella degli uccisi che giacciono nel sepolcro». Qual è la concreta situazione di quest’uomo? Non è facile dirlo, ma il testo lascia trasparire che costui è emarginato, separato da tutto e da tutti, da Dio e dagli umani. Di tale condizione egli accusa niente meno che Dio:
Mi hai posto nella fossa sotterranea,
nelle tenebre e negli abissi.
Su di me pesa la tua collera,
tu mi violenti con tutti i tuoi flutti (vv. 7-8).
La stessa accusa la possiamo ritrovare nella parte finale del salmo:
Io sono povero e morente fin dalla giovinezza,
sono sfinito sotto il peso dei tuoi terrori.
Sopra di me sono passati i tuoi furori,
i tuoi spaventi mi hanno annientato.
Mi circondano come acqua tutto il giorno,
insieme mi accerchiano.
Allontani da me l’amico e il compagno,
miei conoscenti sono le tenebre (vv. 16-19).
È un linguaggio duro, lontano dal nostro modo abituale di parlare a Dio, eppure rivela qualcosa che abita in ciascuno di noi, oltre ad essere molto liberante. Di fronte allo scatenarsi del male nella nostra vita, spesso dei sensi di colpa, che emergono dalle nostre profondità, ci portano a chiederci cosa abbiamo fatto per meritare questo; segue poi l’accusa a Dio, come se egli ci avesse punito per un peccato (anche se in questo salmo non c’è alcuna confessione di colpa). Dio è visto come un Dio di collera, non di amore, sembra addirittura crudele.
A partire da queste immagini vi è chi conclude che non solo Dio sembri, ma sia effettivamente crudele. A mio avviso si tratta invece di decodificare in altro modo queste espressioni. Posta a confronto con il male, l’esistenza umana è un enigma, enigma che neanche la fede elimina o risolve: siamo nati nella sofferenza, viviamo nella sofferenza e in essa moriamo. Dura lex, sed lex! Questa condizione ci isola dagli altri ma ci separa pure dal Signore, l’autore della vita. Per questo il salmista, in un estremo gesto di rivolta, osa imputare a Dio il male, si ribella a lui gridandogli la propria frustrazione. Lo straordinario è che il protagonista continua comunque a rivolgersi al Signore, invocandolo con parole che nella loro paradossalità esprimono la sua adesione a lui. Fa di nuovo capolino il “ricatto d’amore”:
Ti invoco, Signore, tutto il giorno,
verso di te protendo le mie mani.
Per i morti fai forse prodigi?
O le ombre sorgono forse per lodarti?
Si narra forse il tuo amore nel sepolcro,
la tua fedeltà nel luogo di perdizione?
Si conoscono forse i tuoi prodigi nelle tenebre,
la tua giustizia nella terra dell’oblio? (vv. 10-13)
Non sembra esserci alcuna speranza, eppure continua il dialogo con Dio, mediante una fede ignara dell’aldilà della morte. Dialogo faticoso, tanto più che Dio sembra non rispondere. Nonostante questo l’invocazione continua: «Ma io a te, Signore, grido aiuto, al mattino la mia preghiera ti precede» (v. 14), e la domanda cruciale, lancinante, permane: «Perché, Signore, mi respingi, e mi nascondi il tuo volto?» (v. 15).
Eccoci al nocciolo della questione: che cosa può fare Dio? Come risponde? Nel confronto tra l’orante e Dio, l’esaudimento vero avviene quando il primo riesce, con fatica, a trovare un senso a ciò che vive: forse non è esaudito come vorrebbe, eppure comprende di poter amare e accetta di poter essere amato fino alla fine. È ciò che Luca dice di Gesù quando, di fronte alla sua insistita preghiera al Padre sul monte degli Ulivi, affinché allontanasse da lui l’amaro calice, «gli apparve un angelo dal cielo per confortarlo» (Lc 22,43). È l’angelus interpres, è lo Spirito Santo che porta Gesù a comprendere che la volontà del Padre consiste nel vivere l’amore fino alla fine, anche a costo di una morte ingiusta e violenta, addirittura la fine ignominiosa della croce… Così rimane fedele a Dio, senza rinnegare la fede in lui, nonostante il suo apparente silenzio.
Lo stesso avviene qui per il salmista, che continua a vivere nel dialogo e nell’alleanza la relazione con Dio, anche quando non è in grado di ascoltarlo e di cogliere una sua risposta alla propria sofferenza. Il salmo termina sulla nota della solitudine estrema – «miei conoscenti sono le tenebre» – eppure paradossalmente questa è vissuta davanti a Dio, in alleanza con i propri fratelli e sorelle dell’umanità.
Grande lezione, seppur a caro prezzo: altro è andare verso la morte senza comprenderne il perché, altro è andarci intuendo che essa ha un senso, perché l’amore può vincere la morte (cf. Ct 8,6). Davvero, anche nell’ora più enigmatica, esercitarsi a dare e ricevere amore può insegnarci, a livello esistenziale, ciò che vale la pena di vivere; anzi, che «tutto vale la pena se l’anima non è piccola» (F. Pessoa).
Questa la più grande libertà.
Ludwig Monti