La retorica si avvolge su sé stessa, spacciandosi per lungimirante intelligenza. Qualcuno ci crede, qualcuno ci casca. Molti, per virtù più che per fortuna, ancora si indignano.
«Non devono partire» è il ritornello degli sciocchi, dei paurosi, degli illusi incapaci di leggere il reale e la storia. La storia, sì. Anche la nostra storia. Siamo tutti figli di profughi e migranti.
Quando Ottaviano Augusto assume definitivamente il potere nel 27 a.C., ai Romani che chiedono la pace, dopo un secolo lungo di sanguinose guerre civili, il pronipote di Cesare si presenta come custode e garante della Pax e della securitas.
Il riscatto dalla violenza passa anche attraverso l’attività letteraria, promossa dalla spinta ideale e dal sostegno concreto del mecenatismo augusteo.
Proprio in età augustea la letteratura latina dà forma a due dei suoi massimi capolavori. Pur obbedendo a statuti di genere profondamente diversi fra loro – da una parte, un’opera di storiografia, dall’altra, un poema epico –, sia l’Ab Urbe condita di Tito Livio sia l’Eneide di Virgilio offrono il loro sostegno alla proposta augustea di recuperare un criterio identitario in cui tutti i romani possano riconoscersi e stringersi in unità; e, all’interno di un percorso narrativo che trova compimento nella celebrazione del princeps come simbolo e garanzia di questa stessa unità, tracciano le coordinate di riferimento per un’ermeneutica della cittadinanza: di quali significazioni è portatrice l’espressione Civis Romanus sum?
Ricuperare l’identità
Per recuperare l’identità, bisogna tornare alle radici. L’Ab Urbe condita liviana si apre con una guerra. Dopo ogni guerra ci sono dei vincitori e ci sono degli sconfitti. Dopo la guerra di Troia, il troiano Enea, mitico progenitore dello stesso Augusto, è il perdente che, costretto a fuggire dalla sua patria – domo profugus –, a lungo erra nel Mediterraneo per giungere poi, finalmente, nelle terre del Lazio.
Accanto alla figura del profugus Enea, nel racconto liviano delle origini compare un’altra figura di profugo: si tratta del greco Evandro, profugus ex Peloponneso, uomo saggio e autorevole che, dalla Grecia, aveva portato in dono alle incolte genti del Lazio la scrittura.
Quattro secoli e trenta sovrani di Alba Longa separano Enea dai gemelli suoi discendenti, Romolo e Remo, con la nota vicenda del salvataggio dalle acque, della fondazione di Roma e del fratricidio.
Dopo l’uccisione di Remo, Romolo, che detiene da solo il potere, decide di ampliare la città, aumentandone la popolazione; a tale scopo apre un asylum, che accoglie ogni sorta di gente, alla rinfusa – turba omnis sine discrimine. E sono proprio questi disgraziati, puntualizza Tito Livio, il nerbo della grandezza che verrà – primum ad coeptam magnitudinem roboris.
Lo stato romano cresce e si fa sempre più forte. Ma essere forti non basta, se questa forza può esaurirsi in una sola generazione, per mancanza di donne e per mancanza di figli. Così Romolo organizza delle grandi festività, cui invita le popolazioni vicine. I Sabini accorrono in massa. Ad un segnale convenuto, i Romani si gettano sulle giovani Sabine e le rapiscono. È il tristemente famoso “ratto delle Sabine”.
La brutale violenza del gesto scatena un duro conflitto tra i due popoli. Un conflitto che verrà sanato solo grazie all’intervento delle donne che, divenute madri di figli che portano in sé il sangue di due popoli nemici, si slanciano fra i due eserciti schierati a battaglia e, da due, creano una sola città – civitatem unam ex duabus faciunt.
Una storia di inclusione
Il popolo romano si riconosce come figlio di questa doppia genealogia, che sa e sente profondamente iscritta nella propria identità; e, infatti, i Romani si dicono Romani da Romolo e da Roma, ma Quiriti dalle madri sabine e da Cure, che dei Sabini era la capitale.
La storia di Roma è una storia di inclusione. Essere cittadini romani significa tener fede a questa eredità morale e ideale. Lo sapeva bene il mantovano Virgilio che, proprio su questo filo, tesse la trama della sua Eneide:
Non ignara mali miseris succurrere disco.
La regina Didone, costretta dall’odio del fratello a fuggire dalla propria patria Sidone, in Fenicia, aveva trovato rifugio sulla sponda opposta del Mediterraneo e qui aveva fondato la sua nuova città, Cartagine. È lei che, dopo la tremenda tempesta che ha distrutto gran parte della flotta di Enea, dà ospitalità ai naufraghi, accogliendoli con benevolenza, giacché – dice –, Esperta di dolore, so soccorrere gli infelici.
In queste note vibranti di humanitas risuona una sensibilità già pronta ad accogliere la Parola che, di lì a qualche anno, avrebbe iniziato a percorrere i mari e le strade dell’Impero, approdando a Roma dalle terre della Palestina, del Medio Oriente, dell’Africa settentrionale. Terre di un impero che aveva costruito la propria identità sulla dimensione dell’apertura all’Alteritas e che, proprio per questo, era plasticamente disponibile ad ospitare le radici cristiane, germogliate in un lontano Altrove.
Siamo tutti profughi
Siamo tutti profughi. È questa la nostra vera radice identitaria. Lo sapevano bene i Romani, che nei loro miti di fondazione avevano posto la dimensione dell’inclusività come cardine e garanzia del loro stesso successo sul piano storico e ideale.
Lo sanno sempre di meno i nostri politici, tronfi di retorica, incapaci non solo di rileggere e studiare la storia, ma soprattutto di portarne responsabilmente ed efficacemente l’eredità morale.
Lo sa sempre di meno la nostra sempre più vecchia e sempre più smemorata Europa che, scivolando quasi senza clamori nella disumanità, lascia cinicamente affondare al largo di Lampedusa o sulle spiagge di Crotone le sue tanto sbandierate radici cristiane.
Anita Prati