Il cententenario della nascita di don Lorenzo Milani è l’occasione per parlare di scuola e, con la scuola, del disagio, degli studenti e pure dei docenti
Nei giorni precedenti l’anniversario (27 maggio 1923-2023) mi aveva fatto impressione, non poca, leggere di 11 studenti universitari che si sono tolti la vita negli ultimi tre anni.
Lo scrive Gerolamo Fazzini su Jesus. Fazzini conclude riportando le parole Francuccio Gesualdi, allievo della scuola di Barbiana «La scuola propone come fine la carriera, ma poiché la motivazione della carriera non attecchisce, la scuola è costretta a usare lo spauracchio dei voti e delle bocciature per spronare i ragazzi a studiare. A Barbiana ci veniva proposto di studiare per tutt’altri motivi, primo fra tutti la dignità personale»
Inutile ripetere che il tema delle fragilità degli studenti è per me di grande impatto, come docente e, ancor più, come padre.
Ma il contesto che traspare nelle parole di Gesualdi sembra, come dire, lontano o datato, oggi riferibile forse a poche situazioni.
C’è davvero lo spauracchio dei voti? O piuttosto c’è l’impazzimento del sistema formativo?
Senza pretese di teorizzazioni, provo a raccontare in ordine sparso qualcosa di questo impazzimento, riferendomi principalmente all’istruzione secondaria e terziaria.
Altri potranno scrivere di cause remote, dei mutamenti nel modo di imparare nelle giovani generazioni e poi dei vari postumi del Covid. Io, che sono appassionato di numeri, tra le cause dell’impazzimento vedo anche la demografia. Abbiamo sempre meno giovani, qui al Sud la situazione è drammatica. Probabilmente su questi pochi giovani si riversano tante aspettative familiari; quello che è certo è che le aule si vanno svuotando. E, se i docenti sono stanchi e demotivati, può capitare che la preoccupazione per la sopravvivenza delle cattedre, il posto di lavoro, prevalga su altri doveri istituzionali, come l’orientamento in ingresso ed in itinere.
Al termine dell’obbligo scolastico ci rallegriamo delle iscrizioni e delle immatricolazioni che tengono, non accorgendoci che andiamo a pescare sempre più in basso nel barile (anzi, fatemelo dire, così sembra che sono bravo, nella coda della gaussiana).
Giustamente ci preoccupiamo dei numeri; iscritti anzitutto, e poi percentuali di ogni sorta, di promossi, di dispersi, di esami superati, di CFU conquistati… E piano piano finiamo per assomigliare ad una cosa rispettabilissima, anzi importantissima, ma diversa, che è l’azienda.
Lo scivolamento verso l’alto dei voti può essere un rimedio di facile adozione per garantire l’autoconservazione delle classi, dell’istituto…
E chi se ne frega se, alla fine, il diplomato si porta dietro gravi lacune (sommare le frazioni?).
E chi se ne frega se lo studente con la tesi quasi pronta sembra che abbia disimparato i rudimenti del calcolo letterale e scrive clamorose corbellerie (tengo per me esempi di natura troppo tecnica).
Del resto pure il sistema produttivo ce li chiede i laureati, la statistiche europee continuano a dirci che i laureati sono pochi.
L’ossessione delle iscrizioni compare già ai livelli di obbligo scolastico, quando festeggiamo con occhio miope di aver strappato due o tre iscrizioni all’istituto vicino, come se non fosse un gioco a somma zero tra colleghi.
E così, a tutti i livelli, per strappare (o conquistare) iscrizioni, ci inventiamo sempre più iniziative pubblicitarie, divulgative, derogando forse al nostro dovere primario, quello di stare in aula ad insegnare roba solida (come avrebbe fatto don Milani?). Anzi, insegnare a stare a lungo in aula o sui libri, ad imparare, dovrebbe essere la prima preoccupazione.
Probabilmente il “prodotto” che sforniamo è, in termini statistici, buono, con punte di eccellenza, ma qualcosa ci sfugge tra le mani: che studentesse e studenti, tutti, ci stiano bene dentro il sistema dell’istruzione, quando lo attraversano e quando ne vengono fuori.
Un po’ alla volta, fin dalla scuola dell’obbligo, ci siamo abituati al fatto che il lavoro della scuola (e la valutazione?), poggi sempre più sul cosiddetto extracurriculo, ossia le opportunità di cui godono gli studenti fuori della scuola (cosa che non mi sembra esattamente nello spirito di Barbiana).
Inoltre il mio timore è che noi operatori stiamo chiudendo un occhio sull’eventualità di creare (tanti) disadattati, che sanno di non sapere e devono recitare di sapere, timorosi che qualcuno, la famiglia, il sistema formativo, il datore di lavoro o il cliente, veda il bluff. In un mondo del lavoro spaccato tra specializzazioni e manovalanza, già è amaro il boccone dell’ascensore sociale bloccato da troppi anni (anzi, forse pure in discesa); capiamo bene quali possano essere le conseguenze sulle personalità più fragili.
Si badi bene, non ho ricette; non sto invocando una scuola “all’antica”, gerarchizzata e selettiva. Ho semplicemente qualche dubbio sulle infinite attività collaterali che sottraggono tempo al nostro “core business”; è una spirale in cui i docenti si trovano come invischiati (lo stesso potremmo dire della burocrazia). Il concetto di dispersione forse andrebbe applicato non solo alla popolazione scolastica/universitaria, ma anche al tempo dedicato al lavoro duro dell’insegnamento (se non erro don Milani lo aveva addirittura aumentato, estendendolo pure alla domenica!). Inoltre, come dicevo sopra, nel rispetto della nostra “utenza”, si dovrebbe rimettere al centro del nostro lavoro, con coscienza, anche la questione dell’orientamento, in ingresso ed in itinere.
E poi? Ahimé altro non so dire, non so come ne verremo fuori. Mi accontento di avere dubbi e di condividerli di tanto in tanto.
Ai miei studenti continuo a parlare (ogni tanto) anche di varia umanità, e pure di responsabilità sociali, perché l’istruzione pubblica superiore la pagano anche quelli che non ne usufruiscono.
Ci provo a insegnare con passione, anche civile, perché poi arriva il maledetto momento della valutazione, dove tutto si complica.
Ci provo almeno a (far) stare bene in aula, perché Dio ci risparmi da altri nomi in quell’elenco di giovani schiacchiati dalla disperazione.
Non so cosa avrebbe fatto don Milani. Forse dovremmo farlo santo e proclamarlo protettore ed esempio di noi docenti smarriti.
Lorenzo Pisani