Nei borghi delle aree periferiche il parroco non c’è più. L’impegno dei laici per “salvare” le comunità cristiane. Le nuove sfide al centro della Settimana di orientamento pastorale a Lucca
Dello è un Comune di 5.500 abitanti nel Bresciano. Un centro. Tre frazioni. Quattro chiese. Un solo parroco. «E come collaboratori noi tre preti oltraottantenni. Ma, quando non ci saremo più, il nostro giovane sacerdote dovrà presiedere da solo nove Messe ogni domenica. Sempre se non cambierà qualcosa», dice con il suo caratteristico tratto ironico il vescovo Domenico Sigalini, emerito di Palestrina, che «da pensionato» è a servizio di «una realtà ecclesiale sempre più diffusa in Italia: quella delle piccole parrocchie senza il prete residente», racconta. Comunità che in molti casi ricadono nelle “aree interne” dove si trovano paesi e borghi che rappresentano un terzo della Penisola e in cui il numero dei residenti crolla, i servizi pubblici scarseggiano e il domani rischia di essere sinonimo di “abbandono”. Anche dal punto di vista ecclesiale. «Oggi la Messa festiva viene garantita. Ma non è detto che nel prossimo futuro resterà a cadenza settimanale. Se non ci rinnoviamo drasticamente, tra quindici anni ci sarà il deserto a causa della dispersione, delle difficoltà a trasmettere la fede, dell’assottigliarsi delle attività pastorali in loco», sostiene Sigalini.
Proprio alle comunità di periferia che non possono più contare su un prete stanziale è dedicata la Settimana nazionale di aggiornamento pastorale giunta alla sua 72ª edizione che si apre lunedì e si tiene fino a mercoledì nel Seminario di Lucca. Un’arcidiocesi dove la “condivisione” dei parroci si è imposta anche dalla geografia con vette e valli problematiche. “Andò in fretta verso la montagna” è il tema dell’evento promosso dal Centro di orientamento pastorale (Cop) presieduto da Sigalini. A fare da sottotitolo una domanda: “Esisterà ancora nei piccoli paesi la comunità cristiana che segue e annuncia Cristo?”.
Lo spunto è arrivato dal percorso Cei dedicato alle “aree interne” che aveva avuto uno snodo nell’incontro di trenta vescovi a Benevento un anno fa. «Nel nostro appuntamento partiremo dall’aspetto sociale per concentrarci su quello ecclesiale», chiarisce il presidente del Cop. Ossia su ciò che succede o resta all’ombra dei campanili. «La montagna – spiega l’arcivescovo di Lucca, Paolo Giulietti, guardando al suo comprensorio – è la frontiera dell’innovazione pastorale. Si ha a che fare con condizioni che ci mostrano come il modello della “parrocchia autosufficiente” sia ormai superato perché presuppone anche cifre non più immaginabili. Dobbiamo chiederci come assicurare un futuro a comunità che già adesso hanno venti o trenta fedeli. Davvero corriamo il pericolo dell’estinzione se non cominciamo a unire le forze. Perciò i piccoli centri non sono la retroguardia ma l’avanguardia del nostro essere Chiesa».
Preti lontani; greggi ridotti; celebrazioni che diminuiscono: da qui bisogna partire. «Il cammino di fede non è soltanto nei momenti di culto ma nella concretezza dell’esistenza – chiarisce Sigalini -. Se una delle priorità rimane quella di sostenere la vita sacramentale, ci rendiamo comunque conto che questo non è sufficiente. Perché una parrocchia continui a esserci, è necessario avere persone che siano testimoni del Risorto fra la gente. Serve avere come modello le prime comunità cristiane descritte nel Nuovo Testamento dove la vita di fede era nel segno della corresponsabilità. Perché non possono essere oggi le famiglie a farsi carico dell’educazione alla fede? O perché non pensare che un laico apra il tabernacolo e animi l’adorazione eucaristica quando un gruppo ha il desiderio di pregare benché non ci sia il parroco? Ci aiutano in questo senso alcune scelte profetiche di papa Francesco sui ministeri laicali». Il riferimento è ai ministeri istituiti del lettore, dell’accolito e del catechista che però non vanno visti come surrogati del sacerdote. «Finora dicevamo: “Tanto lo fa il prete”. Ma non dipende dalla mancanza del parroco se una comunità è tenuta a farsi più missionaria: ciò è dovuto al fatto che la Chiesa sta lentamente vedendo i suoi orizzonti restringersi senza aprire nuovi canali di dialoghi con il popolo di Dio. Ecco perché i piccoli paesi possono diventare laboratori dove ci siano persone che si preparano, si fanno conoscere ed entrano in comunicazione con tutti per portare nelle case il Vangelo». E una via è quella della spiritualità del quotidiano, suggerisce Sigalini. «Dobbiamo fare in modo che l’intera esperienza personale, che contempla la famiglia, gli affetti, l’amicizia, il lavoro, sia sorgente per l’anima. Così l’Eucaristia si traduce in vita».
Certo, potrà accadere che non in tutte le località ci sia la Messa domenicale. «La domanda che dovremmo porci è se avremo ancora gente che chiederà di ritrovarsi intorno alla mensa del Signore», provoca il presidente del Cop. E nelle giornate di studio un focus sarà dedicato alla formazione in Seminario dei preti con molteplici parrocchie. «Che cosa dovrà fare il parroco dell’avvenire? – avverte Sigalini -. Dire otto, nove, dieci Messe ogni volta oppure cercare di attivare una presenza concreta di laici che crescano alla scuola di Gesù, facciano incontrare Cristo e preparino ai sacramenti? Finora il parroco era colui che dava il permesso. Oggi è chiamato a qualificare donne e uomini che, seppur non siano molti, vivano in maniera responsabile il loro essere cristiani».
Giacomo Gambassi – L’Avvenire