Il senso e il bisogno della Comunità per una crescita nella fede

Nel corso della mia vita ho avuto occasione di frequentare, conoscere e partecipare alla vita di parecchie comunità cristiane – in Italia e all’estero. Esperienze, queste, che mi hanno fatto incontrare vissuti di fede comunitari che erano e sono tutt’altro che infantili, perché la fede calata nella vita, nei suoi momenti luminosi e nei suoi tornanti faticosi, matura ed è messa alla prova. Di fede adulta, in giro nelle nostre comunità, ce ne è molta più di quanto possiamo immaginarci. Denunciarne l’assenza come esito sistemico significa non onorarla a dovere e non essere capaci di percepirla.

Credo che il punto dolente non sia tanto un’infantilità diffusa nei vissuti credenti, quanto piuttosto l’incapacità della routine pastorale di affiancare i percorsi di fede matura che esistono nelle nostre comunità. Ma non mi va neanche di gettare tutta la croce sul ministero ordinato, perché di preti e diaconi capaci di farsi prossimi alla maturità della fede ce ne sono.

Il freno va cercato sovente altrove, in quella diffusa paura ecclesiale di lasciare un modello oramai esaurito nella sua efficacia e significatività, da un lato, e nell’ossessione curiale di tenere tutto sotto controllo, dall’altro. Un sistema, questo, che si crea un mondo parallelo artificiale che resiste davanti a ogni evidenza. Perdendo possibilità feconde e, con questo, rischiando anche di perdere le persone. In questo modo castriamo le forze e le risorse della fede che pur sempre abitano ancora le nostre comunità cristiane.

Mi sembra poi anacronistico stigmatizzare oggi la fine della consegna famigliare dell’esperienza cristiana, perché questa cesura è in atto, anche in Italia, da più di mezzo secolo – solo che non abbiamo voluto rendercene conto nel momento debito. Vivendo a lungo di avanzi di una introduzione alla fede che si estinguevano sempre di più.

In questo lunghissimo lasso di tempo non ci si è accorti del senso della comunità per la consegna della fede alle generazioni che vengono, impedendoci di cogliere il rilievo ministeriale di molte professionalità dei credenti. Solo per fare riferimento alla vexata quaestio della lontananza dei giovani dalla fede e dal vissuto parrocchiale, non riusciamo a cogliere il rilievo pastorale della presenza di cristiane e cristiani nei contesti dove i nostri ragazzi vivono. Penso qui alla scuola, ma non solo agli insegnati di religione, e all’università – solo per fare un esempio.

Questi sono ambiti non solo di prossimità al vissuto dei giovani, ma anche di apprendimento di come li si può accompagnare nei loro itinerari di vita. Non per catechizzarli, ma per sviluppare una sensibilità della fede alla loro esperienza umana nel mondo attuale – ed offrire loro la vicinanza di questa sensibilità che si è resa disponibile ad apprendere dai loro vissuti.

Se guardiamo ai vangeli, Gesù ancora sempre la sua parola su Dio a situazioni quotidiane del vivere umano. E quella parola fa senso esattamente perché riconducibile alla concreta esperienza dei giorni. Ogni banalità della vita può diventare occasione d’innesto della lieta notizia del Vangelo – solo che bisogna essere lì, dove la vita è effettivamente vissuta, e non in una torre d’avorio che ci rende immune, e spesso insensibili, a essa.

Ogni cristiano e cristiana abita quotidianamente questi spazi della vita concreta, frequentando le pieghe del vivere che forse un giorno consentiranno una parola su Dio che non risulti estranea e lontana dai vissuti umani.

Marcello Neri