Il presepe: il sentiero di Dio per arrivare a noi
Era un rito. Sacro e laico insieme.Sacro, perché narrava il Grande Mistero, il Mistero della Notte Santa. Laico, perché il rito non era nelle chiese, lo si celebrava nelle case. Né lo officiavano i preti, bensì genitori e figli e spesso i nonni con loro. Era il rito di costruire il Presepe. Per chi abitava fuori città o quantomeno aveva la possibilità di perlustrare qualche bosco, il rito aveva una introduzione: la ricerca del muschio. E i bambini avevano imparato a strapparlo senza fretta, quasi fosse cosa sacra, per farne tappeto alla venuta del Signore.
Veniva poi il rito atteso delle statuine, sfilate religiosamente, ad una ad una, dal grande scatolone, quasi venissero dal mistero. Così fino all’ultima, disposta dal più piccolo, nella notte santa: il Bambino e la paglia. Mi rimane nel cuore la coralità di quel rito. Di sacro rito si trattava: succedeva infatti a piccini e grandi di fermarsi a contemplare nel silenzio. E anche di pregare, la sera della novena, o, tutti insieme, prima del pranzo di Natale.
Il Presepe nelle case finiva per essere un racconto: raccontava a tutti una affascinante storia d’amore, che non avrà più fine. Oggi il Presepe ha perso importanza. E, poi, non è più un rito. Forse anche per questo la memoria del Natale è andata impallidendo. È venuto meno il rito del cuore nelle case. E se riprendessimo i riti nelle case? E insieme i silenzi e le preghiere?
Se riprendessimo a sostare davanti al Presepe, e, nella sosta, riascoltassimo il racconto? Presepe è silenzio. Il frastuono -questo grande male del secolo- il frastuono che non ci permette più di pensare, ha invaso purtroppo anche i presepi: spesso assomigliano più a una fiera -la fiera delle vanità- che a una terra visitata da Dio. Nei presepi del passato poche erano le statuine: pochi infatti i personaggi di cui si parla nel racconto vero di quella nascita, anche se l’annuncio era destinato a tutto il popolo. Ma, tra le poche statuine, una c’era che mi ha sempre affascinato e che, anche oggi, mi succede di andare a ricercare nei presepi moderni, anche se il desiderio per lo più rimane deluso: la statuina dell'”incantato”. Sostava, nel presepio, da lontano, quasi a rispettosa distanza. Il suo volto era nel segno dello stupore e della meraviglia: il “meravigliato”, così si era soliti chiamarlo. Che oggi il “meravigliato” non sia più tra le statuine del presepio già è una perdita di non poco conto, che mi riempie di tristezza; ma la cosa più grave è un’altra: che non ci siano più -o siano così pochi- i meravigliati, gli incantati tra di noi; che ci manchi questo sostare a distanza e questo provare stupore per la bellezza di questa nascita mirabile nella notte.
L’invito che ora mi giunge da quel lontano “incantato” è a ritrovare la freschezza dello spirito e a rigodere dell’evento, fino a rimanerne stupito e affascinato. La bellezza dell’evento potrebbe forse essere allusa -allusa, non definita- dall’accostamento sorprendente di due parola bibliche, che ritornano nel racconto del mistero: la “Gloria” nella “carne”. Con suggestioni e forme diverse, forse tutte le religioni parlano agli uomini di un Dio salvatore. Anche gli ebrei, dietro l’immagine di un Dio salvatore, evocano il braccio teso di Dio che li liberò dall’Egitto. Ma la sorpresa dell’annuncio cristiano non è tanto che Dio sia un Dio salvatore. La sorpresa è che Salvatore sia non un Cesare Augusto, ma un bambino.
La sorpresa è che la Gloria dell’Altissimo abiti la povera paglia di una mangiatoia.Questa è la carta di identità, il documento di riconoscimento di Dio, documento di riconoscimento per tutti i secoli, perché Dio non fa carte false. La Gloria abita la carne: “Il Verbo si fece carne” (Gv 1, 14). Non provare vergogna. Siamo noi che ci vergogniamo della carne dell’uomo: qualcuno lungo i secoli si è sentito pure in diritto di insegnarci anche ad avere vergogna. Ma Dio non si vergogna: la Gloria di Dio ora è nella nostra povera, fragile, limitata umanità. “Noi abbiamo visto la sua gloria”: esclama Giovanni, il discepolo. E la sua Gloria è questa: la Gloria non è un Dio che si innalza, la Gloria è un Dio che si abbassa. Provo, a volte, meraviglia per i cristiani che rincorrono inquieti altri segni, dimentichi che “questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, che giace in una mangiatoia” (Lc 2, 12). Ora sappiamo dove a noi è dato vedere e sfiorare la Gloria di Dio: nella carne dell’uomo. Nella carne di questa umanità, di questa chiesa, di questa nostra comunità, di questa città, di questi nostri amici, di questo nostro povero cuore. E non provarne vergogna.
Non provare vergogna, se la nostra è una storia limitata e povera, fatta di luci, ma anche di ombre, fatta di virtù, ma anche di peccato. E non pensare -a nessuno venga in mente di pensare- che questa carne è troppo umile, troppo piccola, troppo fragile, per contenere la Gloria di Dio: “Il Verbo si fece carne”. Cercare anzi pazientemente e tenacemente di illuminarla dal di dentro, come ha fatto il Signore. Dio non ha scelto il circolo degli illuminati, non ha scelto la setta dei puri né le chiesuole dei separati: è sceso nella nuda povertà della nostra condizione umana. Per questo non può non destare meraviglia il fenomeno di quei cristiani che sono sempre alla ricerca di qualche evento misterioso estatico, quasi che la grande notizia fosse che qualcuno per miracolo si sia sollevato da terra, e non invece che Dio si è abbassato nella nostra carne. Una notizia buona questa, da raccontare ancor più oggi, in tempi in cui i giornali si sono fatti così avari di notizie buone, di notizie che fanno sperare. A chi tocca raccontare? Il Vangelo della nascita viene a dire -e anche questo è sorprendente- che la grande notizia, al di là di ogni immaginazione, è affidata a canali poverissimi: è affidata ai pastori. Anche questa, in apparenza, una “ingenuità” imperdonabile al nostro Dio! Al suo posto avremmo scelto ben altri canali di comunicazione. Dai palazzi di Cesare Augusto la notizia si sarebbe dilatata in un baleno in tutte le regioni della terra, solo che ci si fosse serviti delle strade imperiali.
Ma Dio sceglie non le strade imperiali, ma il sentiero povero dei pastori: è la strategia di Dio. Oggi che sta diventando particolarmente urgente il compito di ricomunicare la buona notizia, l’evangelo, sarebbe importante che i cristiani si interrogassero sulle loro strategie. La sensazione che a volte si avverte è che ci si stia allontanando dalla strategia che punta sui pastori. Qualcuno pensa sia più realistico barattare centri di potere o ipotizzare megasatelliti evangelizzatori.
Sarà, ma questi mezzi mi ricordano tanto le strade imperiali; il vangelo preferisce il sentiero dei pastori. : la voce passa dall’uno all’altro lungo il viaggio, nei deserti e per le pianure, in questo infaticabile andare, negli incontri inattesi, dove ti viene spontaneo spartire con gli altri ciò che ti è capitato.
E loro a dire che era nato il Messia. La sua Gloria -dicevano- l’avevano vista splendere, silenziosa e discreta, nell’umile paglia di una mangiatoia. Così da voce a voce. Da sentiero a sentiero, fino agli estremi confini della terra. Dio.
don Angelo