Per allontanare la paura della fine, si preferisce rimuovere il termine che la esprime. Ma in questo modo non si educa ad accettarla.
Da qualche tempo faccio caso ai necrologi. Sarà che erano la passione di mamma. O sarà che, invecchiando, vai a vedere chi è andato avanti prima di te e provi il sottile piacere d’essere rimasto indietro. Ma, frequentando gli annunci, ti rendi conto che si somigliano tutti, che sono fatti di formule standard, applicabili a chiunque con le dovute varianti.
La prima cosa che si nota è il modo di dare la notizia. Per lo più si scrive che il Tale è mancato. Oppure che non è più tra noi. Staccati, si trovano anche: ci ha lasciato, si è spento, si è addormentato per sempre.
Una seconda scuola di pensiero sottolinea il viaggio: è partito, è andato in cielo, è salito a Dio, è tornato alla casa del Padre, ha raggiunto la sua amata, ha concluso il suo cammino terreno… Sono altre metafore, tipiche di chi vede nella morte un passaggio o un trapasso.
Talvolta si aggiunge un avverbio per condire, a scelta tra: cristianamente, serenamente, tragicamente, improvvisamente, tristemente, coraggiosamente. Alla faccia di Georges Simenon, che li avrebbe abrogati (assieme ai loro utilizzatori). E pure con gli aggettivi non si scherza, quando si compiange il defunto come amatissimo, carissimo, stimatissimo, indimenticabile, insostituibile…: la sagra del superlativo.
Più di tutto, negli annunci, balza agli occhi la grande Assente. La parola che è mancata perché è stata rigorosamente bandita. E sostituita con perdita, dipartita, scomparsa. Appare solo nei titoli di giornale, riservata ai Vip: forse perché, sembrando immortali, danno soddisfazione quando dimostrano che tali non sono. O forse perché i media, inclini ai toni forti, amano andar giù duro, senza sfumature.
I comuni mortali, invece, spinti dal bisogno di attutire, addolcire, ammorbidire, hanno eliminato dal vocabolario il termine. Che della morte si abbia terrore e si pensi di scansarla tenendola – a parole – a debita distanza? Ricordo quando, da piccoli, venivamo invitati a non dire casino e non ne capivamo la ragione, ignorando che cosa fossero le case di tolleranza. E anche adesso alcuni parlano sottovoce, se discutono di mafia, pedofilia o corruzione. Come se fossero i nomi e le immagini a far succedere le cose.
Così anche la morte è divenuta un tabù: citarla non sta bene, è inopportuno e volgare, sporca il salotto… E la mutazione antropologica mi preoccupa, oltre a sembrarmi un indice di scarsa fede. Vero è che da sempre i morti in guerra sono chiamati caduti, ma per distinguerli dai morti per malattia. Ora manca soltanto un parlamentare che proponga di dedicare la commemorazione del 2 novembre ai “diversamente vivi”.
Vengono in mente altri tempi, quando era “normale” morire in casa e le sere prima del funerale si recitava il Rosario con i vicini, accanto alla bara non ancora chiusa: tutti potevano vedere, anche i ragazzi. Che oggi sono tenuti lontano persino dalle esequie, «perché non si impressionino». Mentre ieri venivano educati a non eludere la presenza di questa sorella, sia perché fa parte della vita sia per prepararsi a essa.
Tornando ai necrologi, li ho osservati con curiosità fino al 22 agosto scorso, quando è morta mia mamma. Mentre andavo a espletare le pratiche connesse all’evento, mi è stato richiesto di dettare il testo del manifesto funebre, tuttora in uso nei piccoli centri. Ho pensato: «Sarò capace, dopo aver sorriso di certe espressioni, di pronunciare la parola impronunciabile?». M’è venuto in soccorso il Cantico delle Creature di San Francesco e ho fatto scrivere: «È giunta Sorella Morte per…». So di parenti che non hanno gradito. Il giorno seguente, volendo ripetere l’annuncio sul giornale diocesano, ho riproposto, più o meno, le stesse parole usate per il manifesto. L’incaricata ha avuto un moto di repulsione, ribattendo con forza che «Queste parole non si scrivono» e suggerendo, in alternativa, la formula precotta È mancata cristianamente.
Non ho ceduto. Mi è tornato in mente il verso di Borges, che nell’elenco dei giusti annovera il tipografo «che compone bene una pagina che forse non gli piace».
Gian Carlo Olcuire