Insegnaci a contare i nostri giorni…

di: Fernando Armellini

Usciamo dal grembo materno ed entriamo in questo mondo; dopo l’infanzia facciamo il nostro ingresso nell’adolescenza; lasciamo l’adolescenza per la giovinezza, la giovinezza per l’età matura e la vecchiaia. Infine viene il momento di partire da questo mondo al quale ci siamo forse affezionati al punto da ritenerlo la dimora definitiva e di non volerlo più abbandonare.

Eppure su questa terra la nostra aspirazione alla pienezza della gioia e della vita viene continuamente frustrato.

Quando, con disincanto, consideriamo la realtà, verifichiamo ovunque segni di morte – malattie, ignoranza, solitudine, fragilità, fatica, dolore, tradimenti – e concludiamo: no, non può essere questo il mondo definitivo, è troppo ristretto, troppo segnato dal male.

In noi affiora allora il desiderio di spaziare al di là dell’orizzonte angusto in cui ci moviamo; sogniamo perfino di essere rapiti su altri pianeti dove forse si è liberi da ogni forma di morte.

Nell’universo che conosciamo, il mondo al quale aneliamo non esiste.

Per appagare il bisogno di infinito che Dio ci ha messo in cuore è necessario lasciare questa terra e intraprendere un nuovo esodo.

Ci viene chiesta una nuova uscita, l’ultima – la morte – e questa ci spaventa.

Anche i tre discepoli che, sul monte della trasfigurazione, hanno udito Gesù che parlava del suo “esodo” da questo mondo al Padre (Lc 9,31) sono stati colti da paura: “Caddero con la faccia a terra e furono presi da grande timore. Ma Gesù si avvicinò e, toccatili, disse: ‘Alzatevi e non temete!” (Mt 17,6-7).

A partire dal III secolo compare, nelle catacombe, la figura del pastore con la pecora in spalla. È Cristo che prende per mano e stringe fra le sue braccia l’uomo che ha paura di attraversare da solo la valle oscura della morte. Con lui, il Risorto, il discepolo abbandona sereno questa vita, certo che il pastore al quale ha affidato la propria vita lo condurrà “in prati verdeggianti e verso fonti tranquille” (Sl 23,2) dove troverà ristoro dopo il lungo e faticoso viaggio nel deserto arido e polveroso di questa terra.

Se la morte è il momento dell’incontro con Cristo e dell’ingresso nella sala del banchetto di nozze, non può essere un evento temuto. È attesa.

L’esclamazione di Paolo: “Per me morire è un guadagno. Desidero essere sciolto dal corpo per stare per sempre con Cristo” (Fil 1,21.23) dovrebbe essere proferita da ogni credente.

Fernando Armellini