1° gennaio 2024: nuovi inizi

Sotto l’apparente superficialità del quotidiano che sembra scorrere sempre uguale, in realtà scorre, in modo indefinito e spesso indefinibile, il fiume sotterraneo di un tempo benedetto.

La storia umana è meravigliosamente segnata da una tensione che ne impedisce l’appiattimento: non è mai soltanto uno scorrere delle ore e dei giorni, perché fin dentro le pieghe della più piccola e nascosta dimensione della vita, da quando Gesù è venuto al mondo, abita la stessa presenza di Dio. Una storia sacra scorre ininterrotta intersecando la nostra storia umana. Dio e l’umano sono stati per sempre ricongiunti nella carne di Cristo e camminano verso l’unica mèta.

Tra il panorama di Dio e le strettoie umane non c’è più separazione irreparabile: in Cristo Gesù, ciò che era lontano è diventato vicino (cf. Ef 2,13). Ed è questa la visione che ogni primo giorno di ogni nuovo anno ci viene proposta: quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò suo Figlio (cf. Gal 4,4). L’apostolo Paolo è perentorio: il nostro tempo non è il monotono scorrere degli attimi cronologici, ma è occasione propizia, momento favorevole, tempo «pieno», perché abitato da Dio e dalla sua benedizione.

Il futuro che ci viene incontro

La moderna ed euforica cornice entro cui viviamo l’ultimo giorno dell’anno e il nuovo tempo che si apre non è sempre adatta a farci cogliere questa realtà; la scaramanzia, l’incontinente pioggia di auguri, di spumante e fuochi d’artificio può darci per un istante il brivido della festa, ma facilmente finisce per distrarci e per stordirci, chiudendoci nell’illusione di tutti i buoni propositi che, poi, nell’anno in corso, saranno puntualmente smentiti dalla realtà e, spesso, dalla nostra insolente pigrizia.

Nutriamo giustamente attese e aspettative, ma il «nuovo inizio» sarà già vecchio se rimane incastonato soltanto nei nostri ideali, nelle formule scaramantiche per augurarsi la fortuna o nella professionale e colossale bugia degli oroscopi.

È nuovo inizio ogni anno che si apre perché il tempo, da quando Gesù è venuto sulla terra, è pieno di Dio, è colmo di significati da rintracciare, è attraversato da una speranza sommersa che sempre siamo chiamati a disseppellire. Il Cristo è Colui che sta dietro di noi perché è venuto duemila anni fa, è anche Colui che sta sempre con noi oggi ed è sempre Colui che deve venire domani.

È Lui che impedisce al tempo il dramma della ripetizione ciclica, è Lui dischiude il futuro davanti a noi come tempo in cui nuovamente verrà, nuovamente e in molti modi ci parlerà, nuovamente ci strapperà dalle tenebre e inquieterà i nostri animi spenti per accenderli di passione per la vita, di amore i nostri simili, di attenzione per i deboli, di cura per il creato e le creature tutte.

Quali nuovi inizi?

Da questa prospettiva, il nuovo anno non sarà più un semplice giro di calendario. Sarà un anno migliore? Sarà davvero tempo favorevole per la mia vita, per la Chiesa, per la società? Dipende molto da noi, dalla nostra attesa di Colui che deve venire e verrà ancora, da come ci misureremo con Lui.

Nella nostra vita

Un nuovo inizio è urgente nel modo di pensare e interpretare la nostra vita. Ha scritto di recente Tomáš Halík: «A volte penso che la nostra civiltà abbia perso il senso della gioia, di una gioia profonda biblicamente intesa e che questo deficit sia stato nascosto da una serie di surrogati a buon mercato»[1].

Si fa un gran parlare – purtroppo anche nella predicazione religiosa e cristiana – di situazioni, gesti e atti che sarebbero moralmente discutibili e perciò pericolosi, ma l’attenzione rimane –come se nel frattempo non fosse mutato l’orizzonte antropologico e culturale – su alcune dimensioni della vita privata, della sfera intima e spesso di quella sessuale.

Nonostante la ricchezza del Magistero, non ultimo quello di Francesco, non abbiamo ancora messo al centro della nostra critica profetica il neopaganesimo che pervade la nostra mentalità e che si è ormai insinuato nelle pieghe più nascoste delle nostre metropoli: il principio della merce di scambio che regola le relazioni e sovverte le priorità e i valori della vita, spingendoci all’adorazione del consumismo, vero vitello d’oro innalzato nelle cattedrali del commercio e della pubblicità.

Lo stordimento che ne deriva restringe i nostri desideri profondi, ci proietta a vivere all’esterno e perciò in superfice e, proprio così, ci toglie la gioia. Come dice Meister Eckhart, l’uomo esteriore si perde fin quando dalla distrazione in cui si trova non riesce a scendere nel santuario interiore della propria vita.

Nella Chiesa

Un nuovo inizio è urgente anche nella nostra Chiesa. Si procede certamente a piccoli passi, purché non facciamo della necessaria gradualità pastorale un alibi per restare immobili, fissati nel passato, abili giocolieri del «non smuovere nulla» per restare tranquilli.

Già qualche tempo fa, il teologo tedesco Medard Kehl aveva offerto nel suo libro Dove va la Chiesa[2] una disamina di alcune questioni ecclesiali non risolte e di sfide importanti che la Chiesa dovrebbe affrontare per superare il proprio conflitto con la modernità e cercare forme nuove per l’incarnazione e la trasmissione della fede.

È interessante che di recente anche Enzo Bianchi e un altro teologo tedesco, Gisbert Greshake, abbiano dato alle rispettive riflessioni un titolo uguale o simile[3]. Il fondatore della Comunità di Bose afferma che siamo in un’epoca post-cristiana, di profonda indifferenza verso la ricerca di Dio; ma, al contempo, mentre occorrerebbe guardare a Gesù di Nazaret, al suo stile, al suo tratto umano, purtroppo le nostre comunità cristiane si sono assestate su alcuni valori e alcune prassi etiche, col rischio di ridurre la fede a una morale, a una dottrina, o a un semplice abito religioso.

Anche i recenti dibattiti all’interno della cristianità su questioni delicate, molto più complesse di quanto riesca a dire un articolo del catechismo e spesso non prive di vissuti segnati dalla sofferenza, restano prigionieri di un approccio legalistico, dove la prima domanda e preoccupazione è cosa sia giusto o sbagliato, idoneo oppure no, invece che essere: come sono guardate da Dio queste persone e cosa possiamo fare noi per loro?

Spiace dirlo, ma il Vangelo, con la sconcertante lacerazione della Legge che Gesù provoca incontrando personaggi improbabili come Matteo, Zaccheo o l’adultera, sembra che debba ancora venire.

Nella società

Un nuovo inizio è urgente nella nostra società, e la cosa appare tristemente scontata se consideriamo le drammatiche condizioni dell’Ucraina e del Medio Oriente, senza dimenticarci di altre parti del mondo, dove sono scoppiati nuovi conflitti e si moltiplicano le violenze.

Possediamo molti mezzi e molte possibilità, eppure non riusciamo a evitare l’escalation di rivalità e conflitti, di vecchi rancori e sentimenti di odio ancorati a interessi economici e nazionalismi di ogni genere. Una società pacifica, fondata sulla reciproca accoglienza e convivenza dei popoli nella cornice di un contesto planetario finalmente emancipato dalla guerra, rimane un’utopia.

Sul tema, anche da parte credente, non mancano i distinguo e le ambiguità, rispetto ai quali si staglia la voce del Pontefice, che non si limita a sognare e incoraggiare la nascita di un mondo in cui tutti si riscoprano fratelli, ma nell’Urbi et Orbi di quest’anno ha anche tuonato contro il commercio delle armi, affermando: «per dire “no” alla guerra bisogna dire “no” alle armi…Oggi, come al tempo di Erode, le trame del male, che si oppongono alla luce divina, si muovono nell’ombra dell’ipocrisia e del nascondimento: quante stragi armate avvengono in un silenzio assordante, all’insaputa di tanti! La gente, che non vuole armi ma pane, che fatica ad andare avanti e chiede pace, ignora quanti soldi pubblici sono destinati agli armamenti. Eppure dovrebbe saperlo! Se ne parli, se ne scriva, perché si sappiano gli interessi e i guadagni che muovono i fili delle guerre» (Papa Francesco, Benedizione Urbi et Orbi, 25 dicembre 2023).

Cosa rispondono i Governi e gli Stati? E come si impegnano i cattolici nelle sfide politiche, culturali e sociali che incombono?

Un nuovo parto della storia?

Un nuovo inizio è l’augurio che ci facciamo. Un gran testimone della fede del Novecento, come Carlo Carretto, già nel lontano 1971 scriveva che «siamo entrati forse nell’epoca più drammatica della storia del mondo e della Chiesa. […] Direi che siamo invecchiati di secoli in pochi anni e il nostro passato spirituale ce lo sentiamo lontano lontano, anche se è solo di ieri. Soprattutto sentiamo lontana la nostra sicurezza, la nostra stabilità, il nostro dogmatismo».

Poi aggiungeva: «Ma tutto questo è solo male? Non c’è forse nel disagio di oggi, nella crisi che ci travaglia, una radice buona? Un principio di vita? Posso trarre qualcosa di positivo dallo sfacelo del mio passato? Del nostro passato? Insomma, ciò che sta avvenendo è il principio della fine o è sintomo di un nuovo parto della storia e della Chiesa? […] È difficile dare una risposta. Ciò che possiamo però dire per intanto è che un po’ di insicurezza fa bene a noi, così abituati al dogmatismo e alla violenza delle nostre affermazioni. Ci fa bene soprattutto come cristiani perdere un tantino di prosopopea medievale che ci rendeva incapaci al dialogo, dimenticare il pensiero che bastava trovarsi sulla barca per essere al sicuro […] E, come Chiesa, ci fa bene diventare un tantino più umili, più piccoli, più disarmati, […] Non possiamo più nasconderci dietro i paraventi delle idee preconcette, delle leggi fatte, dell’ordine costituito, delle tradizioni venerande. Tutto è rimesso in questione ripensato e giudicato alla luce di una nuova presa di coscienza e di una fede più adulta […] Ma al di sopra di tutto c’è una scoperta da rifare, un incontro da effettuare, una fede da rinsaldare: quella in un Dio personale»[4].

Entriamo in questo nuovo anno. E che sia davvero un nuovo inizio.

Francesco Cosentino