Quando Israele fu strappato dalla terra d’Egitto, si chiese: come farò a camminare lontano dalle trappole della schiavitù? Come farò a parlare la lingua sconosciuta della libertà? Dio, allora, fece un dono al suo popolo: la Torà, una grammatica di libertà. Quando i discepoli ricevettero l’annuncio che le catene della morte erano state definitivamente spezzate, si chiesero: come faremo a proclamare al mondo questo messaggio di liberazione? Dio, allora, fece un dono: lingue di fuoco, voce divina discesa dal cielo.
Eppure la Pentecoste, che celebra la nascita della Chiesa, è una festa meno sentita rispetto al Natale e alla Pasqua. Per quale motivo? Forse, la Chiesa è così umile da aver scelto di festeggiare sottotono l’evento sorgivo; oppure, quel fuoco originario, che l’ha costituita, è stato presto riposto sotto al secchio. Celebrare oggi questo evento, per la Chiesa, significa, dunque, riscoprire la propria vocazione missionaria, ma soprattutto interrogarsi sul modo di viverla.
L’episodio di Pentecoste, narrato nel libro degli Atti, riscrive pagine antiche della Scrittura sacra. Facilmente ricordiamo il mito di Babele, dove le lingue vengono moltiplicate da Dio per salvare i popoli dall’idolo del pensiero unico. Ma Pentecoste ci riporta soprattutto al Sinai, al dono della Torà che, per gli ebrei è molto di più dei comandamenti: quelle parole sono la voce di Dio, la sua stessa presenza. Il Dio di Mosè e di Gesù non è latitante, comunica parlando una lingua divina che non è esattamente la nostra: è la lingua di Pentecoste. Una lingua che non ha bisogno di traduzioni, affinché tutti la possano comprendere. La Chiesa è chiamata a parlare questa lingua appassionata, di fuoco, per l’appunto, capace di narrare le meraviglie di Dio ai lontani, ai diversi in sintonia con le loro attese e preoccupazioni.
Se fatichiamo a fare missione, nonostante i mezzi mediatici a nostra disposizione, è forse anche perché le chiese parlano oggi una lingua che pochi comprendono. Pretendono di annunciare la salvezza con un linguaggio interno, un dialetto sconosciuto alla maggior parte. Discorsi autoreferenziali che poco hanno del divino… E soprattutto, sembrano lontane dalle problematiche della vita concreta degli interlocutori. La chiesa tende ad annunciare se stessa al mondo, prima del Risorto. Forse, perché non sa ascoltare. È più preoccupata di farsi ascoltare che di ascoltare le domande di senso che si muovono nei cuori in ricerca. E chi la ascolta lo intuisce a fior di pelle! Il miracolo della comunicazione di Pentecoste si gioca proprio nell’arte di comunicare in una lingua che non appartiene a chi annuncia. Riscoprire la Pentecoste, allora, significa ritrovare quel linguaggio altro, presenza di Dio tra noi, che è fuoco, parola appassionata che cambia le nostre vite, prima ancora di pretendere di cambiare le vite degli altri. Abbiamo bisogno di apprendere la lingua della Pentecoste, l’unica che non ha bisogno di essere tradotta; quella lingua che fa sentire accolti e riconosciuti nella propria singolarità.
La lingua di Pentecoste è anche parola di libertà: non ci appartiene; come il vento, soffia dove vuole e non puoi reclamare su di lei il copyright. È voce ecumenica, che dovrebbe echeggiare nella Chiesa universale. Non genera invidia, quando l’altra confessione la riscopre o ne impara il vocabolario; piuttosto, produce frutti di stupore, gioia e gratitudine.
Lo Spirito, che la Chiesa riceve in dono a Pentecoste, è vento di libertà, radicato però nella Parola antica. Ecco perché la Pentecoste è una riscrittura di diversi episodi biblici, e in particolar modo del Sinai. Chi contrappone la «Chiesa della Parola» alla «Chiesa dello Spirito» (chiese riformate storiche e chiese pentecostali!) dimentica che la Chiesa nasce proprio con quella festa che celebra il dono della Torà, della Parola. Il credente, a Pentecoste, impara che è essenziale conoscere la Parola attestata nelle Scritture; e nello stesso tempo, che questo non basta perché la Parola diventi voce che ci parla… Pentecoste rimette al centro la Parola che, senza lo Spirito, è morta e lo Spirito che, senza la Parola, è afono. La Scrittura offre lo spartito; lo Spirito ispira l’esecuzione della sinfonia. E la Chiesa è l’orchestra chiamata ad eseguire il concerto di Dio, per questo nostro tempo.
Come a Gerico le nostre città sono sotto assedio, i muri che si tornano a erigere per dividere e separare non si abbattono con la forza, ma con il suono di una musica capace di arrivare al cuore di ogni creatura. Probabilmente, le chiese non sono ancora in grado di eseguire questa sinfonia divina. Difficoltà nel leggere la partitura, inesperienza con gli strumenti, insieme alla pigrizia e all’incostanza, forse persino un po’ di artrosi… La disciplina dell’ascolto della Parola, l’applicazione costante nelle prove, il rischio dell’esecuzione pubblica possono, tuttavia, trasformare una melodia approssimativa in un concerto capace di stupire il mondo come a Pentecoste.
Lidia Maggi