In quel tempo, uno dei Dodici, chiamato Giuda Iscariota, andò dai capi dei sacerdoti e disse: «Quanto volete darmi perché io ve lo consegni?». E quelli gli fissarono trenta monete d’argento. Da quel momento cercava l’occasione propizia per consegnare Gesù. […]
Entriamo in un tempo che ci fa pensosi. «Tutti gli uomini vanno a Dio nella loro sofferenza, piangono per aiuto, chiedono felicità e pane, salvezza dalla malattia, dalla morte. Così fanno tutti, tutti, cristiani e pagani… Uomini vanno a Dio nella sua sofferenza, lo trovano povero, oltraggiato, senza tetto né pane, consunto… I cristiani stanno vicino a Dio nella sua sofferenza» (D. Bonhoeffer). Quella sofferenza che allora bruciò nella passione di Gesù e oggi brucia nelle croci innumerevoli dove Cristo è ancora crocifisso nei suoi fratelli. Questa è la settimana della suprema vicinanza, vi entriamo come cercatori d’oro.
Anche isolati nelle loro case, i cristiani stanno vicino, sono in empatia vicini alla sofferenza di quanti chiedono vita, salute, pane, conforto; vicini come rabdomanti di dolore e di amore. E dove respirano meglio è la croce. Guardo il Calvario, e vedo un uomo nudo, inchiodato e morente. Un uomo con le braccia spalancate in un abbraccio che non rinnegherà mai. Un uomo che non chiede niente per sé, non grida da lì in cima: ricordatemi, cercate di capire, difendetemi… Si dimentica, e si preoccupa di chi gli muore a fianco: oggi, con me, sarai nel paradiso.
Fondamento della fede cristiana è la cosa più bella del mondo: un atto di amore totale. La suprema bellezza della storia è quella accaduta fuori Gerusalemme, sulla collina, dove il Figlio di Dio si lascia inchiodare, povero e nudo come un verme nel vento, per morire d’amore. La croce è l’innesto del cielo dentro la terra, il punto dove un amore eterno penetra nel tempo come una goccia di fuoco, e divampa. E scrive il suo racconto con l’alfabeto delle ferite, l’unico che non inganna. Da qui la commozione, lo stupore, l’innamoramento. Dopo duemila anni sentiamo anche noi come le donne, il centurione, il ladro, che nella Croce sta la suprema attrazione di Dio. So anche di non capire.
Ma alla fine mi convince non un ragionamento sottile, ma l’eloquenza del cuore: «Perché la croce/ il sorriso/ la pena inumana ?/ Credimi/ è così semplice/ quando si ama» (J. Twardowski). Tu che hai salvato gli altri, salva te stesso, se sei il Cristo. Lo dicono tutti, capi, soldati, il ladro: fa’ un miracolo, conquistaci, imponiti, scendi dalla croce, e ti crederemo. Qualsiasi uomo, qualsiasi re, potendolo, scenderebbe dalla croce. Lui, no. Solo un Dio non scende dal legno (D.M. Turoldo), il nostro Dio. Perché i suoi figli non ne possono scendere. Io cercatore trovo qui la vicinanza assoluta: di Dio a me, di me a Dio; sulla croce trema quella passione di comunione che ha la forza di far tremare la pietra di ogni nostro sepolcro e di farvi entrare il respiro del mattino.
Letture: Isaia 50,4–7; Salmo 21; Filippesi 2,6–11; Matteo 26,14–27,66
Ermes Ronchi
Avvenire
L’entrata di Gesù a Gerusalemme, ricordata dalla Chiesa ogni anno nella Domenica delle Palme, è avvenuta in tal modo e Gesù stesso l’ha preparata in maniera tale da essere definita giustamente come la “parodia del potere” (Warren Carter). In questo racconto ci sono una serie di caratteristiche comuni con quelle che nella cultura ebraica ed in quella greco-romana erano solitamente le “entrate processionali” dei vincitori (B. Kinman).
Come l’apparizione del governante con le sue truppe ed i prigionieri che conduceva (Mt 21, 1-7); l’entrata del corteo nella città (Mt 21, 8-10); la celebrazione del benvenuto da parte delle moltitudini (Mt 21, 8-9); l’acclamazione con inni (Mt 21, 21,9). Nel racconto evangelico non ci sono discorsi di elogio al vincitore trionfante. Ma si sottolinea l’atto finale, che consisteva in un atto religioso nel Tempio (Mt 21, 12-17), che – come sappiamo – è stato trasformato da Gesù in un atto violento, l’espulsione dei mercanti che avevano trasformato la “casa del Padre” in un “covo di banditi”.
Pertanto, l’entrata di Gesù nella capitale imita la condotta imperiale, ma con la finalità di parodiarla. È la contrapposizione di due imperi opposti e contraddittori. Nel fare tale parodia, Gesù “protesta contro lo spirito che animava i trionfi romani, per mostrare un altro modo di esprimere il significato del destino umano” (Visser ‘t Hooft). Un destino che non può ammettere di godere nell’atto inumano di dominare qualcuno e, ancor meno, di umiliarlo, ma che deve essere tutto il contrario: l’esaltazione della semplicità, dell’umanità, della bontà, della vicinanza ai poveri.
Merita attenzione il fatto che Gesù abbia utilizzato un asino per la sua “entrata trionfale”. Quest’animale aveva un significato ambivalente. Ha portato in groppa Salomone (1Re 1, 33-48). Ma era anche un segno di burla e di riso per i gentili, che commentavano con sarcasmo che gli ebrei adorassero la testa di un asino nel tempio (Giuseppe Flavio, Contra Apionem, 2, 80-88). In definitiva, l’entrata di Gesù a Gerusalemme su di un umile asino e circondato da persone umili esprime il fatto che l’aspetto più umano della nostra vita si realizza nella semplicità e nel rifiuto di ogni pompa e di ogni desiderio di dominio. Perché solo la bontà è degna di fede.
Lettura: Matteo 21,1-11
p. José María Castillo
Il dialogo