Per-dono = iperdono = dono grandissimo
Vorrei iniziare questa nostra conversazione con una breve nota filologica. Il termine perdono contiene la parola “dono” con un prefisso, quel “per” che deriva dal greco “ypér”; in italiano noi diciamo “iper” (ad es.: iperattivo, ipermercato, iperprotettivo) dove quell’iper indica la grandezza, una grandezza vorrei dire quasi eccessiva. Perdono è un dono grande enorme, grande fino all’eccesso che Dio ci ha fatto e che noi siamo chiamati a fare agli altri, al nostro prossimo, ma anzitutto al primo prossimo che noi incontriamo, che siamo noi stessi. Sì, il primo prossimo che incontro sono io e il vangelo chiede “Ama il tuo prossimo come te stesso” (Mt 19,19). Potremmo parafrasare: “Perdona il tuo prossimo come perdoni a te stesso”.
Ma diciamo anzitutto qualche cosa sul perdono a partire dalla Prima lettera ai corinzi 13,5: “L’amore non aggredisce, non tiene conto del male, non si rallegra dell’ingiustizia, mette la sua gioia nella verità. Esso copre tutto, aderisce a tutto, spera tutto, soffre tutto”.
L’amore perdona. Perdonare è qualcosa di gratuito, è un dono che noi facciamo a chi ci ha fatto del male. É un atto creativo che ci trasforma da prigionieri del passato in uomini liberi, in pace con le memorie del passato. Solo chi è libero sa perdonare, perché il perdono non è una re-azione, una risposta vincolata, predeterminata, ma è un atto nuovo, non condizionato da ciò che l’ha provocato; è spezzare la logica del taglione, il desiderio di vendetta. Il perdono è una risposta a una sofferenza che si subisce per mano di qualcun altro. Essa esige, dunque, l’onesto riconoscimento che stiamo soffrendo a motivo di un altro dal quale aspettavamo amore. “Proprio da lui! Proprio da lei!”.
Ci è più difficile perdonare le persone che amiamo di più. Se patiamo ingiustizia da parte di un estraneo, la sopportiamo più facilmente. Il perdono è rivolto a coloro che non scusiamo, perché capiamo che in qualche modo sono responsabili dell’offesa che stiamo subendo. Siamo disillusi, ci attendevamo molto da alcune persone, e invece … Ci sentiamo vittime di gesti di slealtà e di tradimento. Il perdono esige anzitutto un ritorno in se stessi, l’assunzione della coscienza della propria povertà interiore: vergogna, sentimento di rifiuto, aggressività, vendetta. Uno sguardo più lucido su di sé è una tappa obbligatoria sul difficile cammino del perdono.
Il perdono è un atto intenzionale. Dobbiamo volerlo, porre dei gesti, fare un cammino. Non è un atto, è un processo, un cammino che richiede ripetuti atti di volontà. Non basta dirci una sola volta: “Ho perdonato”. Spesso la ferita subìta riprende a sanguinare e ancora una volta dobbiamo perdonare.
Tante volte non abbiamo perdonato il passato, anche un lontano passato: i nostri genitori, un torto subito nell’infanzia … Oppure non ci perdoniamo di essere stati deboli, di non aver saputo affrontare le difficoltà della vita, di non aver saputo cogliere occasioni che forse ci avrebbe portato a vivere in altro modo. Ci sentiamo fallimentari. Il rischio è quello di vivere nel rancore: rancore con noi stessi, rancore verso la vita. Rancore deriva dal latino rancēre essere rancido. Quante volte abbiamo il cuore rancido, amaro, un’amarezza di fondo che diventa lo scenario sul quale trascorrono le nostre giornate. Diventa un grigiore che colora le nostre giornate.
Che fare allora? Dimenticare? Voltare pagina? Perdonare è dimenticare? È possibile dimenticare? Ci sono ferite che forse non si rimargineranno mai o che a volte si riaprono dinanzi a eventi che ci fanno rivivere traumi passati. Sul monumento innalzato a Parigi ai deportati morti nei campi di concentramento tedeschi, per la maggior parte ebrei, sta scritto: “Perdoniamo ma non dimenticheremo mai”. È secondo il vangelo? Dobbiamo dimenticare? A volte si dice che il tempo guarisce; no, il tempo non basta. Rimuovere il male subìto, o il male che abbiamo fatto non ci aiuta a ritrovare la pace né con noi stessi né con gli altri. È necessario rivisitare il passato e questo significa concretamente riconoscere che soffriamo per il male subìto, riconoscere la propria ferita, fare la verità. Gesù non ha mai chiesto di dimenticare, chiede molto di più.
Perdonare significa ricordare il passato, che non vuol dire ripetere mentalmente il passato, ma far riemergere la memoria dell’atto per convertirla. L’oblio non cancella, bensì seppellisce il ricordo indesiderato nella profondità della memoria, dov’è inaccessibile alla coscienza e produce distruzioni tanto più gravi quanto più nascoste. Dimenticare è un modo per non affrontare un ricordo fastidioso o di relegarlo nel passato. É diverso dalla rimozione, perché è deliberato. Posso distinguere tra peccato e peccatore, non ridurre l’altro al male che mi ha fatto, a quelle parole che mi ha detto, riconoscere che è più grande di quel singolo gesto, di quelle parole. Per giungere a perdonare è essenziale continuare a credere alla dignità di colui o di colei che ha ferito, oppresso, tradito. Sul momento chi ha fatto il male sembra un essere cattivo da condannare.
Ripeto la domanda: Perdonare è dimenticare? Gesù non chiede di dimenticare, chiede molto di più. Ci sono ferite che non è possibile dimenticare, perché dopo anni sanguinano ancora.
C’è il rischio di essere dominati dall’odio, dall’avversione, ma proprio in quest’odio per chi mi ha fatto del male gli consento di diventare signore e padrone della mia vita. La tragedia più grande dell’essere oggetto del male è il fatto che facilmente la vittima viene trasformata in peccatore, e per questa via si accresce la spirale della violenza. Non c’è da meravigliarsi se i giudei dissero che Gesù stava bestemmiando quando perdonò i peccati. Umanamente il perdono sincero e incondizionato sembra al di là delle nostre possibilità naturali. Scrive Vladimir Jankelevitch: “C’è una sola cosa che Dio non sa fare … fare in modo che le cose fatte non siano mai state fatte” (La mauvaise conscience, p. 82).
Il perdono non è oblio del passato: è il rischio di un avvenire diverso da quello imposto dal passato o dalla memoria. È spezzare la legge della ripetizione. Ma come perdonare? Cessando di guardare a ciò che mi ha fatto l’altro per guardare a ciò che ha fatto per me l’Altro, il Signore. Cristo che abita in me può perdonare, lui che ha concluso la sua vita terrena perdonando (Lc 23,34: “Padre, perdona loro; non sanno quello che fanno”). Hanno ucciso Gesù, ma non il potere dell’amore sconfinato. Gesù non chiede il risarcimento delle offese fatte contro di lui, infrange la legge del taglione e va incontro alla morte liberamente, vivendola non come condanna, ma come dono d’amore.
È iniziata una nuova via per far fronte al male. La base del rapporto non è più costituita dalle offese che ci procuriamo reciprocamente, ma dall’amore che è capace di vincere il dolore e l’amarezza delle offese. “L’amore non tiene conto del male, non si rallegra dell’ingiustizia, mette la sua gioia nella verità. Tutto copre, a tutto aderisce, spera tutto, soffre tutto”.
L’amore ci spinge a cercare di comprendere in profondità l’atteggiamento dell’altro. Forse non si rendeva conto di quello che stava dicendo; forse era arrabbiato per qualche altro motivo, forse aveva semplicemente dormito male … o non si rendeva conto di quello che diceva. Quante volte è successo anche a te di dire cose che non avresti voluto dire, frasi che hai detto alla moglie, ai figli, frasi in cui non credevi veramente eppure le hai dette. Tante volte usiamo un doppio peso e una doppia misura: una misura con noi stessi, un’altra molto più severa ed esigente con gli altri. Ma se il perdono potesse ridursi alla comprensione, diventerebbe la semplice scusa di un errore di giudizio, la correzione di una traiettoria deviata.
A volte uno non perdona altri perché non sa perdonare a se stesso di aver permesso che l’altro lo offendesse. Perdonarsi: accettare di essere persone fragili, limitate, che sbagliano, accettare i propri errori con serenità senza rabbia contro di sé, avere comprensione e misericordia per se stessi. Nel cammino di guarigione delle proprie ferite è essenziale poter condividere con qualcuno la propria sofferenza, dare il nome a ciò che si è perso con il male subìto e poter esprimere i nostri sentimenti: la frustrazione, la collera, il desiderio di vendetta. Solo se accettiamo che in noi ci sono queste reazioni, questi sentimenti possiamo guardarli in faccia ed evangelizzarli.
A volte non perdoniamo a noi stessi di avere iniziato una relazione che si è rivelata un inferno, di esserci infilati in situazioni che sono poi diventate a cielo chiuso. Se non abbiamo il coraggio di assumere la nostra storia, di rileggerla dandole un senso non riusciremo neppure a perdonare gli altri.
Non illudiamoci: il passato lo portiamo con noi. Pensiamo alla guarigione dell’uomo paralizzato in Mc 2,1-12; Gesù lo perdona, lo guarisce e poi gli dice: “Alzati, prendi la tua barella e va’ a casa tua” (Mc 2,11). Alzati, in greco si usa il verbo egheíro, che è uno dei due verbi impiegati per indicare la resurrezione; potremmo tradurre “risvegliati” oppure “risorgi”. Ma c’è quella annotazione che potrebbe sembrare fuori luogo: “prendi la tua barella”; ormai a che cosa gli serve? La barella è il suo passato, non può rigettarlo sugli altri, lo tiene con sé ma quella barella muta di significato: non è più segno di malattia, ma segno di guarigione.
E qui dobbiamo aver chiaro che non possiamo cambiare il passato, ma possiamo cambiare il modo di viverlo. Non si piange sul latte versato. Non serve a nulla ripetere mentalmente ciò che abbiamo vissuto, ricordare i nostri fallimenti, ripeterci che abbiamo sbagliato tutto. Con un lavoro interiore, con un lungo lavoro interiore possiamo giungere a riconciliarci con noi stessi; sì, sono questo e nient’altro che questo. Mi accolgo così come sono smettendo di sognare di essere diverso, abbandonando i periodi ipotetici dell’irrealtà che possono servire per fare esercizi grammaticali (ricordate a scuola: periodo ipotetico dell’irrealtà; ecc.), ma fanno tanto male nella vita. “Se invece di comportarmi in quel modo, mi fossi comportato in un altro …, se invece di sposare quella persona ne avessi sposata un’altra, se invece di farmi monaca, mi fosse sposata …”. Mi perdono di non essere altro. Più si va avanti nella vita e più ci rendiamo conto che tante cose si sono avverate diversamente da come avremmo pensato, desiderato, sognato. Forse il bilancio è in rosso. Eppure, se siamo cristiani, c’è un filo rosso che attraversa la nostra vita: il vangelo, la ricerca del Signore. e allora possiamo abbandonare la nostra vita, il passato, il presente, il futuro, nelle mani del Signore che ci conosce più di quanto noi stessi ci conosciamo, che ci vuole bene più di quanto noi siamo capaci di volerci bene e di voler bene. “Come un bambino in braccio a sua madre è tranquillo il mio cuore”, recita il salmo 131. Dice un padre della chiesa siriaca: “Sii in pace con te stesso, e il cielo e la terra saranno in pace con te” (Isacco di Ninive, Prima collezione 2). E Serafino di Sarov: “Trova la pace e migliaia di persone attorno a te troveranno salvezza”.
Ma per trovare la pace con il nostro passato dobbiamo cercare di dargli un senso. Vorrei qui riprendere la storia di Giuseppe, che tutti conoscete. È una storia di rapporti fraterni “sbagliati”, se così si può dire. Giuseppe non è un modello di santo; provoca i fratelli con i suoi sogni in cui si vede come il più grande di tutti, davanti al quale tutti si devono piegare. È il più amato dal padre e sa sfruttare questo amore a suo vantaggio contro gli altri. E gli altri fratelli non hanno pazienza, non lo sopportano più, fino a decidere di ucciderlo. Poi interviene un fratello e li convince a venderlo come schiavo invece di ucciderlo. E Giuseppe in Egitto attraversa una serie di vicende; grazie alla sua abilità e alla sua intelligenza, fa strada fino a diventare viceré dell’Egitto. Quando la carestia si abbatte sulla terra di Canaan il vecchio Giacobbe manda i suoi figli in Egitto a cercare del grano e Giuseppe riconosce i suoi fratelli. Poco dopo si farà riconoscere, svelerà: “Io sono Giuseppe, vostro fratello che voi avete venduto come schiavo in Egitto”, e farà venire in Egitto tutta la sua famiglia. Ma, dopo la morte del padre, Giacobbe, i suoi fratelli temono che ora si vendicherà di loro, di tutto il male che gli hanno fatto patire. Hanno paura, ma Giuseppe dice loro: “Non temete. Sono io forse al posto di Dio? Se voi avevate pensate del male contro di me, Dio ha pensato di farlo servire a un bene, per compiere quello che oggi si avvera: far vivere un popolo numeroso” (Gen 50,19-20). Giuseppe non tiene conto del male ricevuto dai suoi fratelli, anzi sa trasformarlo, trasfigurare il male che ha patito da parte dei fratelli, ricavando da quella storia che è stata così dolorosa, qualcosa di buono, di positivo, sa trarre il bene anche dal male. A volte è proprio così; se viviamo tutto con bontà e pazienza scopriamo che anche da quello che è andato male, dal dolore, dalla sofferenza possiamo ricavare un insegnamento, imparare un po’ di bontà. Il dolore va riscattato, è sempre un grido alla vita, un’attesa della resurrezione, un’invocazione al Signore perché venga presto. Nulla è perduto e niente ci può separare da Cristo Gesù (Rm 8,35-39).
I padri giungono a dire che il nemico può diventare nostro maestro. Quando qualcuno ci fa del male, noi che ci credevamo tanto buoni, scopriamo di avere dentro di noi desideri di vendetta, tanta rabbia, il desiderio cattivo di farla pagare all’altro. In questo il nemico ci fa da maestro: ci fa toccare con mano che non siamo buoni, ci fa conoscere i sentimenti che abbiamo nel cuore, ci offre un’occasione per convertirci.
Il nemico come medico e come maestro
Vorrei leggervi due testi tratti da monaci
Abba Zosima: (Palestina, fine V sec. – inizio del VI)
“Abba Zosima diceva: ‘Se uno accoglie un pensiero riguardo a chi lo ha afflitto, gli ha fatto torto, lo ha offeso o gli ha fatto del male, e trama pensieri contro di lui, costui tende un laccio alla propria anima al pari dei demoni. Si tende un laccio da solo! Ma perché dico: trama? Se non pensa a chi gli ha fatto del male come a un medico, fa torto a se stesso … Devi accogliere quanto ti viene da lui come una medicina che Gesù ti ha mandato’” (Zosima, Colloqui 3).
Un secondo testo è tratto dagli insegnamenti che Doroteo, monaco nel deserto di Gaza, nel VI secolo, dava ai suoi fratelli. Dice in una sua catechesi: “A volte uno pensa di essere nella pace e nella tranquillità ma, non appena un fratello gli dice una parola che lo rattrista, si turba e ritiene di aver tutto il diritto di rattristarsi, dicendo dentro di sé: ‘Se quel fratello non fosse venuto a parlarmi e non mi avesse turbato, non avrei peccato!’. Questa è un’illusione, un falso ragionamento. Forse che chi gli ha detto quella parola ha messo in lui la passione? Gli ha solo manifestato la passione che era in lui, perché, se vuole, possa pentirsene. Costui somiglia a un pane di grano puro, esteriormente di bell’aspetto, ma che appena spezzato, rivela il suo marciume; così anche lui credeva di starsene in pace, ma dentro di sé aveva la passione senza saperlo. Una sola parola del fratello ha fatto uscire il marciume che teneva nascosto dentro. Se dunque vuole ottenere misericordia, si penta, si purifichi, cerchi di fare progressi, e vedrà che deve piuttosto ringraziare il fratello per essere stato per lui motivo di profitto” (Doroteo di Gaza, Insegnamenti 7,82).
A questi due testi ne vorrei accostare un altro che non è stato scritto da un cristiano, ma dal Dalai Lama, la massima autorità tibetana:
“La compassione di cui parla il buddismo mayahana non è l’amore comune che sentiamo verso coloro che ci sono cari e vicini; questo amore può essere accompagnato da egoismo e ignoranza.
Dobbiamo amare anche i nostri nemici … Se io ho aiutato qualcuno per quanto ne ero capace e costui mi offende nel modo più vergognoso, io devo considerare questa persona come il mio più grande maestro. Se i nostri amici si trovano bene con noi e ci sono vicini, niente ci può rendere consapevoli dei nostri sentimenti o delle nostre idee negative. Solo quando qualcuno ci combatte e ci critica possiamo accedere alla conoscenza di noi stessi e giudicare la qualità del nostro amore. In questo i nostri nemici sono i nostri grandi maestri. Essi ci mettono in grado di vagliare la nostra forza, la nostra tolleranza e il nostro rispetto per gli altri. Se noi invece di nutrire sentimenti di odio verso i nostri nemici, li amiamo ancora di più, allora non siamo lontani dal raggiungimento dello stato del Budda: la consapevolezza illuminata che è lo scopo di tutte le religioni” (citato in Parole dal deserto, a cura di L. Cremaschi, Magnano 1992, pp. 125-126).
L’AT esorta all’amore per lo straniero, alla compassione per il nemico; in Es 23,4-5, fra le disposizioni riguardanti il dovere di rendere giustizia in modo imparziale nei processi, si trova il seguente precetto: “Se tu trovi il toro del tuo nemico o il suo asino smarrito, abbi cura di ricondurglielo. Se tu scorgi l’asino del tuo nemico soccombere sotto il suo carico, guardati bene dall’abbandonarlo; al contrario aiutalo a scaricarlo”. E Lv 19,17-18 ammonisce: “Non odiare il tuo fratello in cuor tuo … Non vendicarti e non conservare rancore verso i figli del tuo popolo, e ama per il tuo prossimo ciò che ami in te”. La regola d’oro: “Non fare a nessuno ciò che non ti piacerebbe subire”, fa la sua comparsa per la prima volta in Tb 4,15. Verrà ripresa da rabbi Hillel, che, quando un non-ebreo gli chiese di insegnargli tutta la Legge nel lasso di tempo in cui riusciva a stare ritto su un piede solo, disse: “Ciò che risulta odioso non farlo al tuo prossimo. Questa è tutta la Torah e il resto non è che commento. Va’, imparalo”. Gesù la trasformerà in senso positivo: “Fa al tuo prossimo ciò che vorresti fosse fatto a te” e nel discorso sul monte ammonisce ad amare i nemici e a pregare per i persecutori (Mt 5,43-45; Lc 6,27-28.35). Se il cristiano, vivendo lo spirito delle beatitudini, conosce opposizioni, rifiuti, persecuzioni, d’altro non deve essere lui a entrare in conflitto con gli altri, crearsi dei nemici. È nemico di nessuno, ma ha molti nemici. Il suo amore per chi gli ha fatto del male è generato dall’amore che Dio ha avuto per lui mentre ancora gli era nemico (Rm 5.8.10). Dobbiamo amare fino alla fine, come ha amato Gesù. Rabbi Natan diceva: “Il più grande eroe è colui che trasforma il suo nemico in amico”. Occorre uscire dalla demonizzazione dell’altro: il pagano, lo straniero, l’ebreo, l’eretico, il musulmano sono alcuni dei visi storici in cui i cristiani hanno incarnato il nemico.
Ma il vero nemico è in noi e non fuori di noi e la lotta che dobbiamo ingaggiare è quella interiore. Lotta per non cedere alla cattiva tristezza (2Cor 7,10), per non lasciare che l’amarezza domini la nostra vita; una lotta “secondo le regole” come dice Paolo (2Tm 2,5), cioè secondo il vangelo, secondo la legge dell’amore.
Ma come realizzare tutto questo? Ne siamo capaci? È solo il Signore che sa perdonare, solo se accogliamo il Signore dentro il nostro cuore, dentro la nostra vita, allora sarà lui stesso a perdonarci e a perdonare. È l’invocazione che rivolgiamo nel Padre nostro: “Perdona i nostri peccati, come anche noi perdoniamo a chi è in debito con noi”. Perdonaci, Signore! Insegnaci a perdonarci e a perdonare.
E anch’io, alla fine di questa nostra conversazione, sento di dover chiedere a Dio e a voi il perdono, perché avverto la distanza tra le parole e la mia vita, tra quello che dico e quello che riesco a realizzare. Nel vangelo di Luca si racconta che il padrone, che ha consegnato le monete ai suoi servi perché le facessero fruttare, a quel servo che ha avuto paura e non ha fatto lavorare la moneta che gli era stata affidata dice: “Dalle tue stesse parole ti giudico” (Lc 19,22). Che il Signore ci perdoni! Ma se Dio non si stanca di perdonare, perché dovremmo stancarci noi?
Lisa Cremaschi
Monastero Bose