Nella settimana che stiamo vivendo, la liturgia c fa incontrare tre figure femminili che costituiscono dei punti di riferimento nella storia del cristianesimo: Maria Maddalena, Brigida di Scozia, Anna, madre delle Vergine Maria e, inevitabilmente, Maria.
Tre donne quindi diversissime tra loro e che hanno saputo coniugare azione e orazione, fede e vita, cielo e terra, spirito e corpo.
Questa insistenza, forse ‘casuale’ quale priorità può suggerire alla Chiesa?
Forse è giunto il tempo di smettere di tergiversare su questioni che rimangono solo questioni senza nessuna conseguenza storica. Lo Spirito Santo, insofferente alle tendenze maschiliste suscita ancora oggi donne come Brigida a scuotere le coscienze per un rinnovamento che non sia solo di facciata o funzionale ad altro ma espressione della ricchezza femminile ancora tutta da scoprire e valorizzare, non solo nella società ma in particolare nella Chiesa.
Papa Francesco, nella sua Lettera al popolo di Dio, ha invitato tutti i credenti, tutti coloro che si sentono parte della Chiesa, a riflettere sulla crisi che essa sta vivendo di fronte alla denuncia degli abusi e ad adoperarsi per “guarire” questa istituzione, additando, fra i mali che la affliggono, con particolare veemenza il clericalismo.
Le donne con il clericalismo non hanno nulla a che vedere dal punto di vista del coinvolgimento personale, perché anche le religiose sono considerate laiche, cioè non ordinate. Non esistono donne che si possano considerare parte del clero, dunque, ma non per questo si possono considerare automaticamente immuni dal clericalismo, che è altra cosa.
Per riflettere su questo problema dobbiamo fare un passo indietro, e prendere in esame l’impegno delle donne nella Chiesa da quando questo ha significato un confronto, esplicito o implicito, con il femminismo che stava trasformando la società occidentale. La prima rivendicazione, avviata a fine Ottocento dalla protestante americana Elizabeth Cady Stanton, è stata quella di avere il diritto di studiare e quindi commentare i testi sacri. Nell’ambito della Chiesa cattolica questo risultato è stato ottenuto solo dopo il concilio Vaticano II — ricordiamo en passant che il commento di Teresa d’Ávila al Cantico dei cantici non ha potuto essere pubblicato perché Teresa ufficialmente non aveva il permesso di accedere al testo! — e ha fruttificato in modo ricco e sorprendente.
Se pure ovviamente con valore discontinuo, i contributi femminili all’interpretazione della Bibbia, e in particolare del Nuovo Testamento, sono stati ricchi, talvolta rivoluzionari, sia nel far riconoscere finalmente la fitta presenza di donne nei testi evangelici, e il rapporto libero e importante che Gesù ha stabilito con loro, sia nel guardare ai testi nel loro complesso con occhi nuovi e capaci di scorgere aspetti trascurati finora. Peccato che questo lungo e felice lavoro, che ormai costituisce un insieme veramente importante, non sia arrivato al corpo sacerdotale né faccia parte ufficiale dell’insegnamento nei seminari. Quante volte dovremo ancora ascoltare omelie in cui non si presta alcuna attenzione al fatto che la samaritana è una donna?
Se questo apporto delle donne, se pure ancora ufficialmente sottovalutato, si può considerare un dono straordinario per la vita della Chiesa, non è altrettanto positivo il bilancio che dobbiamo fare dell’aspetto più “politico” dell’impegno “femminista” delle donne cattoliche. Se non c’è infatti dubbio — e questa analisi è condivisa da tutte le donne che sono impegnate all’interno della Chiesa, religiose comprese — che si tratta di una struttura rigidamente patriarcale all’interno della quale è concesso alle donne solo un contributo molto secondario, sempre sottoposto al vaglio delle gerarchie e guardato con un certo sospetto o con sufficienza, diverse sono invece le strategie proposte e messe in atto, almeno parzialmente, per cambiare questa situazione.
Una parte delle donne cattoliche sensibile a questo problema — e non sono poche — ha cercato di trasferire all’interno della Chiesa le analisi e le modalità di lotta delle femministe del mondo laico, a loro volta mutuate e spesso sostenute dagli schieramenti di sinistra. Queste consistono, ovviamente, in un progetto di crescita di potere all’interno dell’istituzione: molte infatti pensano che l’obiettivo primario sia il sacerdozio femminile, cioè la base del potere, quale unico modo di trasformare l’istituzione. Comunque, affinché la voce delle donne — che non viene ascoltata neppure per i nodi che principalmente le coinvolgono, come la famiglia e la sessualità — acquisti autorevolezza, quasi tutte propongono che, pur senza il sacerdozio, le donne dovrebbero essere poste in posizioni di comando, come la direzione di congregazioni o dipartimenti.
Per raggiungere questi obiettivi, trattandosi ovviamente di una istituzione patriarcale, dovrebbe essere eletto un papa “buono” che apra finalmente le porte alle donne. In sostanza, si tratta di richieste di cooptazione nelle sfere delle decisioni e del potere.
È questa una posizione che si rivela anch’essa affetta da clericalismo: entrare a far parte, direttamente o per via indiretta, nella sfera di potere tenuto saldamente nelle mani dei chierici. Non c’è dubbio che questa apertura alle donne, se ci fosse, non sarebbe negativa perché significherebbe comunque un’apertura ai laici, una crepa nel clericalismo. Ma sarebbe un’apertura pur sempre pilotata dal clero, e potrebbe trasformarsi in una clericalizzazione culturale delle donne. Cosa che avviene spesso.
Insomma, è come se le donne, non sentendosi veramente parte della Chiesa, dovessero aspettare l’invito a entrarvi, possibilmente nei gradi alti.
Ma qui sta il problema: è vero che le donne — anche le più obbedienti — non si sentono veramente parte della Chiesa, ma al massimo figlie obbedienti, che è un’altra cosa. Se si sentissero davvero parte della Chiesa, in virtù del sacerdozio battesimale, combatterebbero per la vita della Chiesa, per la sua aderenza alle parole di Gesù, ovunque si trovano, anche se sono addette alle pulizie, con tutte le armi che hanno a disposizione, che non sono poi così poche. Invece di guardare all’assenza di donne nei piani alti, dovrebbero guardare a cosa possono fare le donne nei piani bassi, anche a costo di scontrarsi con le gerarchie. Non è facile, certo, ma fa impressione vedere il silenzio di tante donne di fronte agli abusi, donne che le trasformazioni della società civile hanno reso forti, preparate culturalmente, spesso anche affermate professionalmente. Troppe, davanti a palesi ingiustizie, hanno scelto di tacere, magari per poi lamentarsi che non erano abbastanza considerate nella Chiesa.
Esse non si sentivano parte della Chiesa, ma solo gregge anonimo che stazionava davanti alle porte in attesa di venire prescelte. Questo è clericalismo, ed è da questo clericalismo che le femministe cattoliche devono guarire: perché la condizione delle donne nella Chiesa cambierà solo se le donne hanno il coraggio di cominciare a cambiarla dal basso, con le denunce se necessario, con le domande che non si pongono mai. Quante volte l’assenza di donne nei consigli parrocchiali, nelle commissioni, e così via, non è dovuta a dogmi o prescrizioni canoniche, ma solo a una radicata tradizione, ormai del tutto inattuale?
Lucetta Scaraffia