Nel vocabolario della tradizione cristiana a cui appartengo – sono una pastora battista — non vi è accenno alla figura del “laico”. ll sacerdozio universale dei credenti che parla della Chiesa come una comunità di uguali, ci sollecita ad andare oltre la distinzione tra clero e laicato. Distinzione sorta in un secondo tempo rispetto alla Chiesa delle origini e che ha mosso la Riforma protestante del XVI secolo nel tentativo di ritornare alle radici di una fede dove la chiamata è di tutti. Anche la recente riflessione cattolica, che pure si muove entro un diverso orizzonte ecclesiologico, preferisce fare riferimento a battezzati e battezzate, qualificati solo in un secondo momento in base a una differenza ministeriale.
Al di là delle specificità confessionali, rimane per tutte le Chiese la questione di come essere luoghi credibili di testimonianza evangelica innescando processi virtuosi di partecipazione nel dare forma alla Chiesa di Gesù. Come far fronte ai meccanismi di delega che affliggono l’Occidente contemporaneo e che si ripercuotono anche nelle nostre Chiese? Poichè anche nelle Chiese della Riforma, a struttura sinodale, per le quali è costitutivo il coinvolgimento della.comunità nel suo insieme, prende corpo la delega a pastore e pastori. Oggi, il principio protestante del semper reformanda, ovvero di una realtà ecclesiale che non può mai dirsi conclusa, in perenne trasformazione, a posto alla prova della società individualista a bassa partecipazione e comunitaria.
In un simile contesto il ruolo dei cosiddetti laici assomiglia a quello degli spettatori, che non si accontentano di assistere a un unico spettacolo e vivono appartenenze parziali con tanto di nomadismo religioso. La disaffezione a sentirsi parte di un’esperienza ecclesiale ha cause molteplici, diverse nelle differenti confessioni cristiane. Ma, al di la delle specificità, la sfida comune consiste nel contrastare questa tendenza. E non tanto per paura di estinguersi, piuttosto perchè una comunità di fede può davvero offrire una seria alternativa alla solitudine e all’individualismo contemporaneo. Il dialogo ecumenico, che prova a riconciliare le memorie, ci aiuta anche a volgere lo sguardo al presente, diventando terreno di confront sulle sfide comuni.
Tre direttrici muovono le scelte nella mia Chiesa a questa riguardo:
1. Un maggior protagonismo delle donne, che si è tradotto nel pastorato femminile e ha innescato processi di consapevolezza e di ripensamento del maschile, del suo linguaggio e delle connotazioni patriarcali ancora presenti, che allontanano le donne e rendono la Chiesa meno credibile. Le donne protagoniste nelle Chiese della Riforma hanno riportato al centro della fede il corpo, con i suoi bisogni e la sua sapienza e ridato dignità al quotidiano riscoprendolo come luogo dove Dio si radica.
2. Le Chiese, dove uomini e donne vivono attivamente la propria chiamata, riscoprono la centralità delle relazioni per trasformare la dimora di Dio in un luogo ospitale, dove chiunque possa sentirsi “a casa”‘.
3. Il protagonismo concreto di soggetti differenti nella vita della Chiesa (uomini e donne, anziani e giovani, bambine e ragazzi) innesca una creatività vitale a tutti i livelli: liturgico, missionario, fine alle modalità della gestione ordinaria delle comunità.
Una creatività non improvvisata, frutto di una lettura attenta del presente, discussa a tutto campo nelle Chiese; ma poi osata, a dispetto delle molte remore, proprie di ogni forma tradizionale e di ogni assetto istituzionale. La posta in gioco non è solo ecclesiale, è teologica. Consiste nel fare i conti con un Dio che fa nuova ogni cosa (Isaia 43,19).
Anche la recente riflessione cattolica, prima della differenza ministeriale, fa riferimento a battezzati e battezzate.
Lidia Maggi