Contano solo le medaglie d’oro o esiste un valore anche nella sconfitta? Per tutte le spiritualità mondiali “il successo più grande è quello contro sé stessi”.
In questi giorni di gare olimpiche, di medaglie vinte oppure perse per un centesimo di secondo, di pochi vincitori e di tanti relativi perdenti, è inevitabile che fioriscano i dibattiti sulla vittoria e sulla sconfitta. Sul valore della prima sembra non ci sia discussione: nessuno al mondo si mette a gareggiare senza il desiderio di vincere, di essere il primo di tutti, si tratta di qualcosa di supremamente naturale per gli esseri umani e senza questo desiderio non vi sarebbero gare, giochi, campionati, premi letterari, agoni, certami e ogni altra sorta di competizione. La vittoria è il fine della gara. Altrimenti non si gareggia, semplicemente si pratica. Ma se c’è la gara, è perché si insegue la vittoria; e se si insegue la vittoria, è perché si vuole la gloria che ne scaturisce. E da che mondo è mondo, la gloria è uno dei quattro maggiori desideri che mettono in moto gli esseri umani (gli altri tre sono il piacere, il potere e l’avere, e sono tra loro in relazione gerarchica a seconda del singolo soggetto). Il che non vale certo solo per lo sport, vale anche per la ricerca scientifica, la politica, la cultura, persino la religione. Ha scritto Pascal: “La vanità è a tal punto radicata nel cuore dell’uomo che un soldato, un attendente, un cuciniere, un vessillifero si vantano e vogliono degli ammiratori. E anche i filosofi li vogliono, e quelli che scrivono contro tutto ciò vogliono la gloria di aver scritto bene, e quelli che leggono vogliono la gloria di averli letti, e anch’io che sto scrivendo ho forse questo desiderio, e forse quelli che lo leggeranno…”. Insomma aspiriamo tutti, ognuno alla propria maniera a seconda dei mezzi che ha, alla medaglia d’oro…
Ma la sconfitta? Esiste un valore anche nella sconfitta, nel rimanere senza medaglia, persino nell’arrivare ultimi? Addirittura nel ritirarsi, nel non arrivare neppure? Ripreso e rilanciato da diversi siti, circola in rete un testo sulla sconfitta a firma di Pasolini che recita come segue: “Penso sia necessario educare le nuove generazioni al valore della sconfitta. Alla sua gestione. All’umanità che ne scaturisce. A costruire un’identità capace di avvertire una comunanza di destino, dove si può fallire e ricominciare senza che il valore e la dignità ne siano intaccati. A non divenire uno sgomitatore sociale, a non passare sul corpo degli altri per arrivare primo”. Questo testo, che poi prosegue nel modo che vedremo, in realtà, dicono gli esperti (cfr. il blog “Pasolini. Le pagine corsare”), è un falso, confezionato molti anni dopo la morte di Pasolini e a lui falsamente attribuito. Si tratterebbe cioè di uno dei tanti casi di pseudepigrafia di cui è colma la storia dell’umanità, che si ha quando qualcuno, per dare credito al proprio pensiero, lo attribuisce a un autore famoso, come avveniva frequentemente nell’antichità soprattutto nel caso dei vangeli (oggi invece si preferisce il procedimento opposto del plagio, cioè prendere frasi o intere pagine di altri spacciandole per proprie).
Ciò che è effettivamente documentato è che Pasolini affermò: “Io sono un uomo che preferisce perdere piuttosto che vincere con metodi sleali e spietati”, mentre sembra proprio che da nessuna parte delle sue opere si ritrovi la citazione riportata. La quale continua così: “In questo mondo di vincitori volgari e disonesti, di prevaricatori falsi e opportunisti, della gente che conta, che occupa il potere, che scippa il presente, figuriamoci il futuro, a tutti i nevrotici del successo, dell’apparire, del diventare… a questa antropologia del vincente preferisco di gran lunga chi perde.”
L’apocrifo pasoliniano è perfettamente speculare alla mentalità dominante che celebra la vittoria. Questa dice: il successo è comunque sempre bene, evviva il vincitore, fortunato chi sale sul suo carro. Quest’altra invece replica: il successo è comunque sempre male, chi vi arriva è un disonesto, ha barato e sgomitato. La prima celebra i vincenti per il fatto stesso che hanno vinto, la seconda invece li abbassa e di contro innalza i perdenti per il solo fatto che hanno perso. Personalmente non mi riconosco né nell’una né nell’altra prospettiva.
Io penso che la vittoria abbia un effettivo valore, non a caso dagli antichi era considerata una dea, chiamata Nike dai greci e Victoria dai latini. Esiste cioè un obiettivo valore dell’impresa compiuta, sia essa a livello sportivo o scientifico o di altro tipo, un valore che ha molto a che fare con il senso del lavoro umano e con la sua capacità di produrre eccellenza. È sempre fonte di grande gioia vedere come un essere umano riesca a eccellere, o in un determinato sport, o nella musica, o nel teatro, o altrove, non si può non sentire un senso di ammirazione e di gratitudine per coloro che ci fanno vivere grandi emozioni tramite il loro lavoro e il loro talento. Penso altresì che abbia un effettivo valore anche la sconfitta, non tanto però in quanto semplice sconfitta (che rimane sempre cosa da non augurare a nessuno, quindi ovviamente neppure a noi stessi), ma piuttosto per un duplice motivo, uno più pratico e uno più profondo.
Il motivo più pratico consiste nel fatto che le sconfitte sono sempre, se saggiamente assimilate, grandissime lezioni. Spesso si impara più da una sconfitta che da dieci vittorie. A tutti i livelli: fisici, psichici, morali. La sconfitta quindi è una potente medicina e un ancora più potente incentivo.
Il motivo più profondo riguarda la vita nella sua interezza. Se infatti la sconfitta consiste nell’essere vinti da qualcuno o qualcosa più forte di noi, allora occorre riconoscere che essa, ben più che la vittoria, è il destino finale di ognuno di noi. Per questo la cultura della sconfitta costituisce la più alta filosofia di vita, come insegna Platone che descriveva la meta della filosofia come “imparare a morire”. L’arte del vivere (ma lo si capisce solo a una certa età) si compie nell’imparare a morire, cioè nella cultura della resa di fronte a una forza invincibile.
Noi però non siamo fatti per perdere, siamo fatti per vincere, è il nostro stesso istinto vitale a gridarlo dentro di noi. Per questo ci appassioniamo allo sport, ai festival o alle mille altre competizioni. Ma qual è la gara a cui porgere, sicuri di una risposta, la domanda del nostro inno nazionale: “Dov’è la vittoria?”. È quella contro noi stessi. Si legge nel Dhammapada, testo sacro buddhista tra i più amati: “C’è chi da solo sa sconfiggere centinaia e centinaia di avversari; ma il più sublime degli eroi è colui che sa vincere se stesso”. E ancora: “La vittoria su se stessi è la massima vittoria, ha molto più valore che soggiogare gli altri”. L’affermano unanimi tutte le grandi spiritualità mondiali. Così Platone: “La vittoria che uno riporta su se stesso è la prima e più nobile vittoria”. Così Seneca: “Il dominio di se stessi è il più grande dominio”. Così la Bibbia in Proverbi 16,32: “Chi domina se stesso vale più di chi conquista una città”. Ecco la medaglia d’oro per conquistare la quale ognuno di noi è venuto al mondo.
Vito Mancuso