Per una risurrezione continua, nel tempo del ‘già e non ancora’

Le donne si incamminano verso il sepolcro tra la notte e l’alba, quando ancora è buio ma già inizia a sorgere il sole, per andare incontro all’inatteso: la tomba è vuota. Anche noi viviamo la stessa condizione, anche a noi è chiesto di dare fiducia a una resurrezione non più cessata – facendo piccoli passi di vita e mutando sguardo, come dice Tonino Guerra in una sua breve poesia.  

È un’alba anticipata dal desiderio, quella che apre i racconti di Pasqua: «Al mattino, quando ancora era buio» annota l’evangelista Giovanni, che segue Maria di Magdala nel suo andare alla tomba del Maestro. E così anche gli altri evangelisti, che raccontano di altre donne con Maria, ma sempre «di buon mattino», sempre nel «primo giorno della settimana», sempre «al levare del sole». 

È un’alba che sorge, ma non ha ancora illuminato tutto il cammino. Le donne sono in movimento per desiderio e affetto verso Gesù di Nazareth, la cui vicenda ha avuto una fine così triste e, umanamente, fallimentare. Eppure vogliono rimanere fedeli a colui al quale hanno creduto, a quella vita che ha cambiato le loro vite: così escono e si incamminano verso il sepolcro, mentre ancora non è giunta la pienezza del sole. 

È il tempo del già e non ancora: è già domenica, è già un nuovo giorno di una nuova settimana, ma la notte non ancora si è consumata del tutto: «ancora era buio».
Le donne troveranno una pietra rotolata, un sepolcro aperto. Non rivedranno il cadavere di un morto a cui, per desiderio di cuore, volevano arrivare, con l’intento di ungerlo e prestargli cura.
Donne sulla via di un cimitero, al chiarore ancora contrastato dell’alba: così si aprono i racconti pasquali.
Maria di Magdala e le altre donne, tuttavia, incontrano l’inatteso: il sepolcro non contiene più il corpo, quella tomba scavata nella roccia è aperta e vuota.
Non capiscono, provano timore: l’evangelista Giovanni ricorda che Maria corre dai discepoli, e che lui stesso, di fronte a quella notizia, esce verso il sepolcro, ugualmente di corsa, con Pietro. 

È davvero il tempo del già e non ancora quello in cui si muovono, tra smarrimento, tristezza e sorpresa, gli amici del Maestro. È un tempo che sentiamo a noi vicino: anche noi viviamo nel momento del già e del non ancora: attraversiamo mesi di pandemia, vediamo già segni di rinascita, ma non ancora sperimentiamo la fine del deserto che abitiamo da più di un anno.
Siamo come le donne al sepolcro: intravediamo i raggi dell’alba, senza che la notte sia finita. Ma, forse, questa è la condizione del cristiano da sempre, da quel mattino di Pasqua: la tomba è vuota, il Cristo è risorto, la pietra che chiudeva ora è posta accanto, abbandonata. Eppure siamo ancora pellegrini nella storia, tra fatiche e gioie, lacrime e sorrisi, protesi verso il ritorno glorioso del Risorto; siamo già figli del Risorto, siamo già destinati alla vita luminosa senza fine che abbraccerà anche il nostro corpo, ma il Cristo glorioso non si è ancora manifestato a noi in tutta la sua forza di vita eterna.

Se siamo onesti, dobbiamo riconoscere che spesso la tensione tra già e non ancora è anche quella che attraversa le nostre piccole vite: uomini e donne in cammino, spesso in cerca del volto del Risorto, che a volte troviamo – o crediamo di aver trovato -, mentre altre volte ci sfugge: pellegrini che sciolgono le proprie giornate tra la notte e l’alba, tra il già dell’essere in movimento perché abbiamo conosciuto il Cristo e il non ancora della nostra incompletezza, delle nostre fragilità, dei nostri dubbi, delle nostre stanchezze, dei nostri schemi: siamo tante volte alla ricerca di un cadavere, ma troviamo altro, perchè ci viene incontro un annuncio di stupore: la tomba è vuota, la morte non ha avuto l’ultima parola chiudendo nel fallimento una vita di amore e speranza. C’è sempre una possibilità di rinascita, di ripartenza, di speranza.

Allora, forse, dobbiamo imparare a vivere i nostri già e non ancora come coloro che credono in una resurrectio continua, cioè come coloro che sanno che da quel mattino di Pasqua un crocifisso è risorto, mantenendo però le ferite nel suo corpo, diventate ormai fessure di vita nuova, di vita possibile oltre i sepolcri in cui una parte di noi si trova, per scelta, per costrizione, per sfiducia. Possiamo credere e vivere in una resurrectio continua, sapendo che lo Spirito del Risorto è misteriosamente presente ogni giorno, che ogni giorno risorge, continuamente, senza sosta, nel chiaroscuro tra la notte e il giorno; e che, per questo, in ogni passo di rinascita, in ogni passo di fiducia nella vita, di ripartenza, di misericordia, di libertà, di verità e d’amore, agisce misteriosamente la forza del Cristo risorto, che è il Dio della vita, non della morte. Ma è anche il Dio della gratuità: la sua presenza è offerta gratuitamente, la sua resurrezione è un dono, semplicemente un dono dell’amore del Padre.
Non siamo chiamati a continui grandi passi, ma a piccoli passi che cambino un poco il nostro modo di vedere, di vivere, di credere con fedeltà alla resurrezione.

È una riflessione che trovo sottesa a una breve poesia di un autore pur non credente, Tonino Guerra (1920-2012), così amante della vita nelle sue grandi e sorprendenti bellezze:

La farfalla

Contento, proprio contento
sono stato molte volte nella vita
ma più di tutte quando
mi hanno liberato in Germania
che mi sono messo a guardare una farfalla
senza la voglia di mangiarla.

Tonino Guerra, liberato dal Lager dopo un lungo periodo di prigionia, vive un’esperienza di resurrezione: non più guardare la farfalla come cibo per sopravvivere, rispondendo a un bisogno molto umano, ma contemplarla come parte della bellezza gratuita della vita; per il poeta, uscito dalla tomba del campo di concentramento, la farfalla non è qualcosa da prendere, ma qualcosa da ammirare, con gioia vera, e da lasciare allo scorrere della vita, nei suoi colori, nella sua leggerezza, nel suo volo.
Imparare a vivere una resurrectio continua, nel tempo del già e non ancora, coltivando lo stupore per il gratuito: questo, davvero, sia l’augurio di Pasqua.

Sergio Di Benedetto