Nel cammino di “attuazione” del Concilio Vaticano II, l’istituzione di un “ministero formale” come quello del catechista è un passo di assoluto rilievo, realizzato con il motu proprio Antiquum Ministerium, che tiene dietro all’estensione del lettorato e dell’accolitato a tutti i battezzati, uomini e donne, realizzato con il motu proprio Spiritus Domini.
Così ora abbiamo tre ministeri istituiti, aperti indifferentemente a uomini e donne:proclamazione della parola, servizio liturgico e insegnamento della dottrina, in comunione con vescovo presbiteri e diaconi, sono uffici aperti al contributo di tutti i battezzati. Questo è potenzialmente una grande ricchezza per la Chiesa, un fattore di dinamicità e di confronto di grande impatto.
Ma lo è solo potenzialmente. Perché, se è ovvio che senza le due lettere “motu proprio” nulla si sarebbe potuto fare, tuttavia ora, che i testi sono stati pensati, scritti e sono entrati in vigore, ciò che era e resta necessario e decisivo deve essere riconosciuto anche come insufficiente.
Perché non è sufficiente superare una riserva dei ministeri esistenti e istituire un nuovo ministero? Perché l’inerzia della lettura clericale degli ordini minori prevale sul concetto di ministeri istituiti, e perciò tende a riservare ai “candidati al ministero ordinato” sia il lettorato sia l’accolitato. Così l’inerzia della lettura clericale del compito del catechista lo riserva al “laico” proprio perché non lo pensa come ministero. I tre “ministeri istituiti” – che ora papa Francesco ha liberato dai limiti della riserva maschile e della non ufficialità – patiscono di uno “stato di minorità” che è legato alla loro storia.
Una traccia evidente di questa comprensione inadeguata si legge anche nel bel testo di Antiquum Ministerium. Se nella Chiesa ci sono “ministeri” è perché tutti i battezzati possono esercitare un’autorità, nelle forme, secondo i percorsi e con i requisiti previsti. La scoperta che il “catechista” viene riconosciuto titolare di un “ufficio” e “ministero” ecclesiale non implica in alcun modo l’esigenza di sottolineare la sua natura “laicale”.
L’aggiunta di “laicale” alla parola ministero riduce il progresso e quasi lo sterilizza. Perché assume la categoria clericale di “laicato” come categoria teologica, mentre si tratta semplicemente di una categoria sociologica e funzionale. I battezzati possono essere chiamati a svolgere un ministero, a diversi livelli. Questo non ha nulla a che fare con il loro stato di laici o di chierici. Detto in modo secco: il Codice obbedisce, non comanda!
Il cortocircuito dei concetti sistematici e giuridici qui produce scintille. Cerchiamo di chiarirlo meglio: nella Chiesa tutti sono battezzati e membri del popolo di Dio. Poi ci sono “carismi” e “ministeri”. Tra i ministeri vi sono quelli ordinati e quelli istituiti. Il superamento della nozione di “laico” sta tutto qui. Se il laico fosse qualificato non semplicemente da “non essere chierico”, ma da una “vocazione secolare”, sarebbe assai difficile pensarlo come titolare del lettorato, dell’accolitato e come catechista.
Per questo motivo la categoria di “laico” è una delle zavorre peggiori per la promozione e la valorizzazione dei battezzati non ordinati. In effetti, a pensarci bene, i ministeri del lettore, dell’accolito e del catechista non si esercitano specificamente “nel secolo”, ma vivono e si esercitano nel cuore della Parola ascoltata e del sacramento celebrato, nell’intimità della vita ecclesiale. Una “specializzazione secolare” era stata la “riqualificazione” del laico, che da “nomen infamiae” lo faceva diventare “membro del popolo di Dio”. Ma questo era anche il suo limite: perciò non è sbagliato chiamare clericale questa iniziale visione.
Il salto di qualità che Spiritus Domini e Antiquum Ministerium permettono di compiere alla coscienza ecclesiale sta precisamente nell’uscire dalla visione “ridotta” del fedele semplicemente battezzato, e perciò privo della potestà di ordine e della potestà di governo. In questa denominazione resiste e si trincera un’immagine di “societas inaequalis”, che cambia le parole, ma non cambia le strutture. E che impedisce ogni vera qualificazione ministeriale dei “laici”, perché li pensa originariamente “nel secolo” e “privi di potestà”.
Tuttavia, paradossalmente, proprio mentre si esce dalla visione ridotta, e lo si fa in grande stile e con una solenne istituzione, si usa però l’attributo “riduttivo”: laicale. Essendo il nome di coloro che “non hanno ufficio”, sembra paradossale che alla nuova grande ripresa di un “ministero” si congiunga l’aggettivo che caratterizza i “senza ufficio”. Il grande slancio di iniziativa, che queste due “aperture” hanno davvero reso possibile, potrà dunque diventare realtà solo ad alcune condizioni elementari:
a) Che si lasci cadere la raffigurazione clericale del “laicato” come composto da coloro che santificano “il secolo” e che si santificano “nel secolo”. Questa visione, che ha segnato anche il Concilio Vaticano II, è però troppo povera e troppo unilaterale. Papa Francesco si colloca ben oltre rispetto ad essa: nell’attribuire a battezzati e battezzate senza ordinazione la proclamazione della parola, il servizio liturgico e la trasmissione della dottrina cristiana, supera la nozione formale di “laico”.
Lo dice bene il testo di Antiquum Ministerium, quando parla di “fattiva presenza di battezzati che hanno esercitato il ministero di trasmettere in forma più organica, permanente e legato alle diverse circostanze della vita, l’insegnamento degli apostoli e degli evangelisti”.
b) I ministeri sono certo “istituiti”, formalmente assegnati, ma diventano “istituenti”, ossia capaci di arricchire la tradizione, solo mediante l’uso corretto. Se si continuasse a “istituire” come accoliti o lettori soltanto dei “seminaristi” e se si continuasse a attribuire la carica di “catechisti” a maestre e professori in pensione, i due documenti resterebbero senza alcun effetto. Non ci sarebbe né reale ampliamento alle donne dei primi, né vera assunzione di ministero dei secondi.
c) Il ministero del catechista non ha bisogno di essere definito “ministero laicale”: è semplicemente un “ministero” che anzi permette di superare la divisione tra clero e laici, tra chi insegna e chi ascolta, tra chi comanda e chi obbedisce, quasi fosse una sorta di struttura fondamentale e a priori della Chiesa. La verità è che, per pensare nuove forme ministeriali dotate di vera autorità ed efficacia, bisogna superare quella figura di Chiesa ottocentesca, rigidamente “inaequalis”, che si nasconde non solo dietro il codice del 1917, ma anche sotto quello del 1983.
Sempre più chiaro appare il fatto che, senza una riforma complessiva del codice, che superi l’intervento episodico di modifica di singoli commi, anche i documenti più limpidi e aperti saranno sottoposti ad una rilettura esecutiva quasi sempre minimale, spesso inerte, talora paralizzante.
Un antico ministero riprende forza e autorità. Papa Francesco assume apertamente l’autorità di istituirne la figura formale, con determinazione e con coraggio profetico. Questa è una bella novità di cui rallegrarsi senza riserve.
Perché non resti solo sulla carta, occorre però vigilare sulle parole equivoche e porre mano ad un riforma giuridica strutturale, che elimini la forma più insidiosa di clericalismo: quella imposta dagli assetti normativi fondamentali, che si pretenderebbe di far valere come “verità di fede”, alla cui luce dovremmo sottoporre a verifica persino la Parola e il Sacramento.