Fare della morte un momento di vicinanza

Ancora oggi moltissimi chiedono il funerale religioso: accompagnare il momento del lutto, pensando a ‘catechisti del congedo’, a cui affidare anche dei momenti liturgici, potrebbe valorizzare carismi e ministeri, aiutando a ripensare la parrocchia oltre la figura del sacerdote. 

Che la morte rimanga uno dei misteri, se non il mistero più fitto anche nel mondo postmoderno, è un dato di fatto di cui non serve discorrere: basta guardare agli ultimi due anni per renderci conto di come la morte, esclusa dal canale comunicativo contemporaneo ˗ poggiato sul successo, sulla salute, sulla relegazione della malattia e, quindi del lutto, a fatto privato ˗ sia in realtà ben presente. È un’esperienza così evidente, anche nella sua negazione, che davvero non conta ora stare a delinearne la pervasività (sul tema, lo sappiamo, la bibliografia è ampia).Considerando la conduzione pratica della vita delle nostre comunità, è fatto noto che ancora oggi, in epoca post-cristiana, moltissimi chiedono il funerale, vuoi per abitudine, vuoi per il suo valore simbolico necessario alla rielaborazione del lutto, vuoi per la possibilità di stringersi attorno alla famiglia nel dolore, vuoi per riconoscenza verso il defunto, vuoi per convinzioni di fede: tutte ipotesi valide, tutte ancorate (pure) nell’antropologia. Fatto sta che, nel momento della morte di una persona cara, ancora si domanda il rito, la liturgia delle esequie, la preghiera; ancora si bussa alla porta della parrocchia, anche se il morto o i familiari da molti anni hanno deciso di non frequentarla più. Questo è, credo, il momento in cui ancora si chiede qualcosa (non sempre è chiaro cosa) alla Chiesa; forse perché gli stessi fedeli cristiani hanno qualche speranza da condividere sulla morte, credendo in un Risorto.

Se quanto scrivo è vero, e mi pare che lo sia, ne vorrei dedurre due conseguenze molto pratiche.

La prima: dobbiamo valorizzare, dare spazio, aprire il tempo del lutto alla presenza cristiana, qualora venga richiesta; saper rendere quel momento di dolore e sofferenza un momento di vicinanza, di accompagnamento, anche di annuncio se vi sono le condizioni. Ma con un’avvertenza, che trovo espressa magistralmente da Bonhoeffer, che criticava duramente il «metodismo secolarizzato» (si rileggano le lettere del giugno e del luglio 1944 di Resistenza e resa): guai ai cristiani che volessero furbescamente approfittare della fragilità altrui per convertire! Guai a coloro che strumentalizzassero lo smarrimento e la sofferenza per convertire! Accompagnare con discrezione e, laddove fosse richiesto, aprire anche verbalmente lo spazio al Vangelo. Fare della presenza gratuita, nel buio, la risposta al desiderio nostro di essere cristiani nel XXI secolo. Smobilitare l’apologetica per ammettere il mistero, il dubbio, il silenzio, la mancanza di risposte di fronte al nodo della morte: dirci umani, sapendo sì che abbiamo fede nel Risorto, ma con la coscienza che la penombra ci è compagna.

La seconda, più pratica: oggi non è più possibile pensare a un accompagnamento di tale intensità demandandolo solo ai sacerdoti, e questo non solo (ma già basterebbe) per motivi numerici (quanto tempo richiederebbe e già richiede ai preti numericamente sempre decrescenti questo ministero prezioso!). C’è un popolo di fedeli da valorizzare nella propria dimensione vocazione battesimale che può farsi prossimo ai fratelli e alle sorelle nel lutto. Penso a équipe formate sia spiritualmente che umanamente, discretissime, attente, disponibili, che possano abitare questa forma di testimonianza e vicinanza; laici che sappiano con pudore e rispetto divenire dei veri «catechisti» dell’ultimo momento, rendendosi disponibili nel tempo della malattia e della morte. Che sappiamo anche mostrare un volto della comunità non solo esclusivamente ridotta al sacerdote, ma ampia, ricca, varia. Come in molte parti è stata opportunamente istituita la figura dei catechisti del battesimo, che incontrano le famiglie dei battezzandi, così è tempo di un ministero della catechesi anche per la fine della vita.

Penso pure a momenti liturgici pubblici: ad esempio, fino a pochi anni fa, la sera precedente al funerale veniva recitato il rosario, sovente dai laici, per la persona defunta, spesso nella casa del morto. Questo era anche un momento di presenza di molti che, per motivi lavorativi, non potevano partecipare alle esequie. Poi c’è stato un progressivo spostamento del rosario in chiesa (anche perché pochi ormai muoiono in casa), quasi sempre investendo di tale preghiera il sacerdote, sempre più oberato. Ora, per far fronte alle esigenze concrete dei preti, capita che si uniscano (mi è accaduto diverse volte) rosario e funerale, in un unico lungo momento liturgico. Sono invece convinto che i due momenti, anche a livello di significato, debbano essere separati, affidando ai catechisti prima descritti il momento della preghiera del rosario, o di un’altra forma di preghiera o veglia. Credo, inoltre, che si debba sempre più affermare il funerale senza Eucarestia, quando la situazione lo suggerisce, magari per la lontananza dei familiari dal cammino cristiano: anche qui avremmo magari più diaconi o catechisti disponibili alla celebrazione della Liturgia della Parola, con maggior tempo e disponibilità, con maggior conoscenza del defunto, senza dover sempre contare sul sacerdote. Ma ciò porterebbe pure alla valorizzazione di tutti i carismi e i ministeri.

In vista del Sinodo, ma anche in vista dell’istituzionalizzazione dei lettori e dei catechisti, davvero ripensare il momento del congedo sarebbe un passo di estremo significato per molti: farsi accanto a chi è nella prova è vocazione cristiana principe.

SERGIO DI BENEDETTO