Parrocchia: una Comunità che condivide il pane della fede e della vita

di Marco Ceriani

La parrocchia dovrebbe essere “casa comune” dove tutti gli aspetti della vita umana trovino accoglienza e sostegno, senza troppi pensieri organizzativi.


Per continuare in un’efficace azione pastorale, per essere luogo di incontro per le persone, per essere laboratorio di fede e vita cristiana e forse, diciamocelo, per “rimanere al passo con i tempi”.
Devo riconoscere che, nonostante gli interessanti spunti, non riuscivo, e non riesco tuttora, a farmi un’idea chiara di come una parrocchia dovrebbe essere. E questo nonostante la mia più che quarantennale esperienza di vita parrocchiale, ricoprendo vari incarichi: da chierichetto a lettore, da catechista a membro del Consiglio pastorale e decanale… fino a grigliatore di salamelle (serve anche quello!).

Ma in questi giorni sto rileggendo il primo volume della trilogia di Benedetto XVI su Gesù di Nazaret, pubblicato nel 2007. Nel capitolo dedicato al commento al Padre Nostro, nel paragrafo su Dacci oggi il nostro pane quotidiano, oltre a ricordarci il significato eucaristico del pane, afferma anche che:

Come già nell’invocazione Padre Nostro avevamo sottolineato nostro nel suo più ampio significato, così anche qui pone in risalto che si tratta del pane nostro. Anche qui preghiamo nella comunione dei discepoli, nella comunione dei figli di Dio, e pertanto nessuno può pensare solo a se stesso. Ne consegue un secondo passo: noi preghiamo per il nostro pane, chiediamo quindi anche il pane per gli altri. Chi ha pane in abbondanza è chiamato alla condivisione».
San Giovanni Crisostomo, nella sua spiegazione della Prima Lettera ai Corinzi, a proposito dello scandalo che davano i cristiani di Corinto, sottolinea che:
“Ogni boccone di pane è in qualche modo un boccone del pane che appartiene a tutti, del pane del mondo.”
Padre Kolvenbach aggiunge:
“Come si può, invocando il Padre Nostro sulla mensa del Signore e durante la celebrazione eucaristica nel suo insieme, dispensarsi dall’esprimere l’inalterabile volontà di aiutare tutti gli uomini, propri fratelli, ad ottenere il pane quotidiano? Con la domanda alla prima persona plurale, il Signore ci dice: Voi stessi date loro da mangiare.”

Queste parole hanno stimolato la mia riflessione e il mio “sogno”.
La parrocchia dovrebbe essere una comunità che non si limita a celebrare, ma che sa nutrire, spiritualmente e concretamente, chi ne fa parte. Dovrebbe essere una parrocchia che offre nutrimento spirituale attraverso liturgie vive, catechesi profonde e una fede che parli alla vita reale.
Dovrebbe essere una parrocchia che si fa prossima alle persone, non solo con iniziative caritative, ma con un atteggiamento di accoglienza autentica.
Dovrebbe essere una parrocchia in cui la condivisione non sia un gesto occasionale, ma il normale stile di vita di chi vi appartiene.
Condividere il pane quotidiano vuol dire condividere le difficoltà economiche e lavorative degli altri parrocchiani (arrivando concretamente con un aiuto monetario e con proposte lavorative dignitose), le fatiche della vita genitoriale, visitare e confortare gli ammalati e i sofferenti, aiutare i più fragili ma anche i più “forti” che credono di bastare a se stessi.
La parrocchia dovrebbe essere “casa comune” dove tutti gli aspetti della vita umana trovino accoglienza e sostegno.

Incomincio a non credere più ai grandi programmi pastorali o caritatevoli, ma sono convinto che una vita cristiana possa ripartire da semplici gesti di spontaneità.
Accudire per qualche ora i figli di un’altra famiglia, condividere un dolce o una bottiglia di vino, visitare un ammalato o un anziano, parlare con una coppia in difficoltà, aiutare in un trasloco o nel risistemare casa, organizzare una partita di pallone (viste le mie doti calcistiche, questo preferisco lasciarlo ad altri), aiutare i giovani nello studio.

Tutto questo fatto non con spirito “organizzativo” ma con spontaneità e semplicità, come se il problema o la gioia di un altro parrocchiano diventino nostri come il problema o la gioia di un nostro parente stretto. Se nostro figlio ha un problema non facciamo un programma ma ci mettiamo semplicemente ad aiutarlo. E se è contento non organizziamo una riunione, ma gioiamo con lui.

Mi permetto, alla luce della mia esperienza, di dare un piccolo consiglio ai sacerdoti.
Spesso si arrovellano su come impreziosire la liturgia, sul creare iniziative che attirino gente, su come organizzare viaggi, raduni, feste, sui Consigli pastorali, i catechismi, ecc.
Tutte cose lodevoli e necessarie, ma credo che alla fine le persone siano attirate molto di più da un sorriso regalato, una dimostrazione di interesse in un momento di difficoltà, dalla vicinanza, anche fisica, nel tempo del dolore.
Sembra che, a volte, i sacerdoti, comprensibilmente presi da molte questioni organizzative e sicuramente molto (forse troppo) stanchi, dimentichino che alla fine i rapporti con le persone si giocano in un faccia a faccia e che, se è vero che “nessuno si salva da solo”, ognuno ha un proprio personale percorso nella sua vita di cristiano e le soluzioni “per tutti’’ hanno valore sono fino ad un certo punto.
Tutto questo, però, non è facile. La realtà pastorale è complessa, i cambiamenti culturali incidono sulle abitudini e spesso anche i migliori progetti faticano a tradursi in pratica. Ci vuole pazienza, visione e soprattutto il coinvolgimento di tutti, non solo di pochi volenterosi.
Gesù nel Vangelo dice: “Voi stessi date loro da mangiare”. È un invito, ma anche una sfida. Nessuno ha già in tasca tutte le risposte, ma forse possiamo partire da qui: riconoscere che il pane è nostro e non mio, e provare a costruire parrocchie in cui questa verità sia vissuta concretamente, giorno dopo giorno.
Se si riuscisse — io non ne sono capace — a creare una comunità con questo stile, allora i dettagli organizzativi, l’organigramma parrocchiale, perfino la simpatia del parroco durante l’omelia diventerebbero secondari e superabili.
Buon cammino a tutte le parrocchie e, parafrasando Papa Francesco: “Per favore, non dimenticate di pregare per i vostri sacerdoti”.