Tra le mura di casa impariamo a ripensarci membri di una comunità che collaborino insieme e riconoscano le sofferenze altrui.
«Quando finirà l’epidemia, che sarà di noi? Questa “quaresima” di incubazione del virus può rigenerarci come persone di comunità? In queste settimane, […] sperimentiamo resistenze e pigrizie, desideri velleitari davanti al crollo dei ritmi. L’astinenza ci può rendere insofferenti e non soltanto darci un po’ di ristoro e tempo per meditare. Che fare quando restiamo delusi se le persone affianco a noi sono poco intelligenti e solidali? […] Ecco la domanda radicale: vogliamo restare nelle nostre comunità (adesso e dopo l’isolamento) per rendere felici le persone vicine a noi? Se sì, avviene perdonandoci, valorizzando il contributo buono di ognuno, anche se in altri atteggiamenti e parole non sono gratificanti. Così costruiamo noi stessi.»
Sul sito dell’Unione Cattolica Stampa Italiana, il padre gesuita Luciano Larivera riflette su cosa ci sta insegnando l’isolamento, dovuto alla pandemia in corso, in merito al senso di comunità. Quando torneremo alla normalità, non dobbiamo ridiventare super-individui, ma ripensarci membri di una comunità luogo di collaborazione non soltanto lavorativa, di preghiere e di festa, dove i conflitti e le antipatie possono essere messi da parte se si è consci di sapersi tutti utili per la missione comune.
In una lettera arrivataci in redazione, don Bruno Baratto, direttore dell’Ufficio Migrantes di Treviso, fa alcune considerazioni su questo tempo di epidemia. Tra queste, interessante è l’amaro riconoscimento che i nostri occhi sono, ancor più che sempre, rivolti altrove rispetto ai drammi esistenti nel mondo indipendentemente dal coronavirus (ad esempio, quello dei migranti tra Turchia e Grecia). Certo, se uno ha un parente malato, soprattutto se gravemente, la sua attenzione e le sue energie saranno fortemente catturate da quanto accade nel proprio contesto relazionale più diretto. Ma quante sono le sofferenze altrui che stanno rapidamente sfuggendo dalla nostra attenzione?
«Il rischio è di rinchiuderci nelle nostre preoccupazioni personali e familiari, di rimanere autoreferenziali come spesso ci accade, anche come Chiesa: ciò che di buono potremmo comunque ricavare da questa esperienza rischierebbe così di ridursi a ben poco… Forse anche di questo bisognerebbe tenere conto allora, nel giusto modo, […] nel nostro stile di preghiera e nei testi delle preghiere prodotte ad hoc per questo tempo: aver presente la varietà del patire presente ogni giorno in tante persone e in tante genti, che non si ridurrà granché una volta terminata […] questa epidemia.»