Armando Matteo e “l’opzione Francesco”

Tutto dipende dal se, come, quando, e perché si può fare una proposta di fede. Perciò scordiamoci ricette buone per tutti.

Uscita in questi giorni, l’intervista ad Armando Matteo, uno dei teologi più noti nel panorama italiano attuale, non mi convince. Altre volte avevo avuto l’impressione che Armando avesse idee interessanti sulla situazione del rapporto attuale tra Chiesa e cultura post moderna. In questo caso l’impressione è che il tentativo di fondo di dare indicazioni concrete per la rivitalizzazione delle parrocchie e della pastorale sia buona, ma non mi convincono i contenuti.

Intanto le categorie di fondo con cui viene letta la postmodernità di oggi: “Siamo la società dell’eterna giovinezza, del godimento perpetuo, dell’egolatria assoluta”. Può sembrare che siano categorie adeguate, ma ho l’impressione che dalla crisi del 2008 in poi le cose stiano cambiando. Più che l’eterna giovinezza per tutti, oggi prevale l’idea che ognuno debba vivere il suo presente, “come se non ci fosse un domani”. Perciò giovani o meno giovani, siamo tutti spinti a concentrarci sull’attimo presente e a tentare di sfruttarne al massimo le possibilità. Secondo. La tendenza al godimento perpetuo sta lasciando il campo ad un’angoscia diffusa, ad un rancore socializzato, al dubbio sistematico su di sé e allo spaesamento, proprio perché questa tendenza si è dimostrata utopica. Perciò più che a godersela, oggi siamo spinti a trovare modi per sopravvivere al meglio possibile, che è molto diverso. Terzo. Pure l’egolatria assoluta non mi pare più così pregnante come categoria per leggere il presente. Molto più evidente, ai miei occhi, l’enorme difficoltà di dare un contenuto sufficiente e un confine minimo all’io. Per avere una egolatria è necessaria che la percezione della propria consistenza sia sufficiente. Ma questo oggi è sempre meno diffuso e sempre più assistiamo a persone che non sanno più chi sono e se davvero esistono o solo “vegetano”.

Sarà che il mio punto di osservazione sono i giovani, ed essi annunciano sempre qualcosa di futuro, ed in essi queste condizioni che ho descritto sono palesi. Forse lo sono meno tra gli adulti, ma il trend culturale sembra allargare a macchia d’olio queste difficoltà di rapporto con la vita.

Armando, poi continua con la proposta pastorale che chiama “opzione Francesco”: accettare che siamo in un cambiamento d’epoca, che un certo modo di essere credenti è finito, che dobbiamo trovare insieme un modo diverso per esserlo oggi. Assolutamente condivisibile. Ma quando poi passa alle esemplificazioni concrete per rivitalizzare le comunità cristiane, l’impressione è che si mantenga su indicazioni già anticipatamente obsolete e astrattamente concrete.

1) Ripartire dagli adulti, perché “la loro testimonianza cristiana – che oggi è davvero scialba e anemica – è fondamentale nel processo di trasmissione della fede alle nuove generazioni”. Come non vedere che uno degli effetti della postmodernità è proprio la frammentazione anche generazionale? Non è pensabile ripristinare una catena generazione di trasmissione della fede, perché questa non si è interrotta per cattiva volontà di qualcuno (gli adulti?), ma perché la velocità di cambiamento sociale e culturale è tale da rendere non più utilizzabile la testimonianza dei genitori per l’educazione, anche di fede, dei figli. Se la fede dei giovani potrà ripartire non sarà certo perché gli adulti gliela consegneranno come eredità tradizionale, ma perché i primi avranno fatto “esperienze” della presenza di Cristo nella loro vita, a prescindere da ciò che gli adulti potrebbero o vorrebbero trasmettere.

2) “Accostare i giovani più direttamente al grande tesoro dei Vangeli, trasmettere loro la forza straordinaria che possiede il gesto del pregare, immetterli nel grande cantiere della carità sin da quando mettono piede in parrocchia per il catechismo».” Indicazioni condivisibili, ma che ipotizzano che i giovani siano disponibili a questo e che “abitino” ancora i territori parrocchiali, oratoriali, ecclesiali. Proprio questo, invece, manca. Perciò il vero lavoro va fatto prima di queste indicazioni: andare a cercarli dove sono (anche sui social), apprendere i loro linguaggi, osservarli ed ascoltarli il più possibile senza preconcetti, offrire loro relazioni in cui potersi riconoscere così come sono in partenza, senza la fretta e la pretesa di poterli o doverli “salvare”. Molto spesso chi fa questo, si rende conto che non sono da salvare, ma che lo Spirito sta già lavorando dentro di loro, per strade inusuali e ci chiede di accompagnarli, pur senza che noi sappiamo bene la strada. L’idea che Parola, Preghiera e Carità siano strade efficaci è teorica. Tutto dipende dal se, come, quando, e perché si può fare una proposta di questo genere. Perciò scordiamoci ricette buone per tutti.

3) “La parola chiave di tutto questo sarà la gioia. La gioia del Vangelo”. Verissimo in teoria. Ma nella pratica quando prevalgono socialmente angoscia e rancore, dubbio sistematico su di sé e spaesamento, è molto difficile immaginare che l’offerta della nostra gioia, (ammesso e non concesso che davvero la viviamo!) produca interesse, desiderio e accoglienza. Molto più spesso ci sono reazioni di incredulità, appoggiate sul pregiudizio della falsità della nostra gioia; reazioni aggressive di colpevolizzazioni nei nostri confronti, appoggiate sul delirio che se davvero siamo gioiosi non possiamo non risolvere i problemi altrui; reazioni di rifiuto per l’eccesso di “luminosità” che portiamo, perché ciò tende a mettere in crisi il paradigma della vita come infelicità invincibile, sempre più diffuso.

Perciò difficilmente la gioia può essere il primo biglietto da visita vincente del cristiano. Molto più promettente, invece, la possibilità di far sentire l’altro amato così come è in partenza e tentare di accompagnarlo la dove e come lui si lascia fare e non dove e come noi pensiamo debba andare.