Per chi è Natale?

La festa della natività tra (presunti) pericoli e (reali) esigenze di vicinanza…

E’ il sabato creato per l’uomo o l’uomo per il sabato? Mi riecheggia in testa questo dilemma ascoltando il tormentone quasi terroristico di molte testate giornalistiche, secondo cui il Natale stesso sarebbe “messo in pericolo” dall’aumento vertiginoso dei contagi della quarta ondata di COVID. Secondo questi annunci allarmistici, le restrizioni e la ancor necessaria prudenza in vista delle riunioni familiari ci farebbero perdere quella che generalmente viene definita la “magia del Natale”, limitando la nostra possibilità di esternare (se non vogliamo dire ostentare) il nostro benessere.

Non voglio nascondermi dietro a un dito: girovagare tra le strade illuminate e piene di gente, tra vetrine e bancarelle, alberi e presepi, è una cosa che mi ha sempre molto divertito e che certamente mi manca; ma di qui a dire che senza di questo non c’è Natale mi pare eccessivo. In questi ultimi due anni abbiamo (avremmo?) dovuto imparare a ridimensionare tali aspetti, per riscoprire l’essenziale dietro ad ogni festa: riposarsi dal lavoro per dare importanza alle relazioni affettive e alla preghiera. A questo servono i regali, gli addobbi e le celebrazioni. Se non l’abbiamo fatto abbiamo sprecato due anni, che invece hanno tutto il sapore di un’attesa profetica, la cui fine potrebbe essere ancora lontana.

In questo tempo, più che rimpiangere la magia del Natale, mi piacerebbe valorizzarne la santità. Non come fanno gli autonominati nuovi farisei, che si credono avvocati dei valori cristiani ma che poi restano legati solo al nome delle cose e «confondono i pensieri degli increduli». Al contrario, ritengo che una festa venga santificata quando sancisce un tempo diverso dall’ordinario, in cui si celebri l’incontro con se stessi, con gli altri e con Dio. Su questi aspetti ho sempre cercato di lavorare nei miei anni di servizio in parrocchia, e su questi mi piacerebbe che si ritornasse a dialogare. Natale, del resto, per noi cristiani è la festa di Dio che si fa carne e viene ad abitare in mezzo a noi, non possiamo allontanarci da questo incontro salvifico. Come efficacemente ha sintetizzato Sergio Ventura (qui), usando le parole di papa Francesco, il nostro prossimo «è una persona nella cui vita “l’opera che il Signore compie” è già “una storia sacra”, è già “grazia” piena di “doni”: è già traccia dell’Altro». Quindi per noi Dio non è nell’abitudine o nella tradizione, ma nella vita delle persone, soprattutto nei più piccoli.

Ecco che dunque che a scontare questi due anni di attesa, trascorsa quasi senza interrogativi su quello che il fumettista Zerocalcare chiama la «riorganizzazione del vivere collettivo» e che dalle pagine di questo blog abbiamo chiamato più volte la ricerca di nuove vie di condivisione, sono ancora una volta i più poveri, non solo in senso economico. Senza andare a scomodare le migliaia di migranti che restano stipati “al freddo e al gelo” ai confini orientali dell’Unione Europea (Bielorussia, Serbia, Ucraina, Libia, Turchia, Marocco…) o le decine di senzatetto che vivono all’addiaccio nelle nostre città, è sufficiente rivolgere il pensiero a chi sarà solo in queste festività. Magari semplicemente perché è stato posto in quarantena poco prima delle feste, o perché deve lavorare, o perché si trova in una situazione di disagio sociale più o meno grave. Abitando vicino ad un carcere (che ho visitato più volte, per lavoro o per volontariato) ho visto in questi giorni le lunghe file di persone accorse per i colloqui natalizi, che almeno una volta l’anno non vogliono lasciare soli i propri familiari detenuti. Insomma, se abbiamo paura che il Natale sia veramente in pericolo, pensiamo a come star vicino alle persone sole intorno a noi, siano stranieri, malati, detenuti o semplicemente in difficoltà.

Uno degli auguri più belli e profondi che ho ricevuto finora sono del caro amico Oliviero Bettinelli, operatore della Caritas di Roma, che riesce a vedere la realtà con gli occhi del profeta: «Natale sia il giorno in cui ricordiamo che il tutto è iniziato nelle periferie del mondo, avvolto nel silenzio e nel dubbio di un mistero profondo, accolto con fiducia e libertà. È poi diventato un viaggio senza certezze, arrivato a prendere Vita in una stalla, perché da altre parti non c’era posto. Lì, gente semplice e curiosa si sarebbe recata a visitare un Bambino come tanti, che solo dopo, e solo qualcuno, avrebbe riconosciuto, non senza fatica, come Figlio di Dio. A Natale dovremmo fare memoria di tutto questo. Il resto è giusto che sia solo carta da pacchi».

DANIELE GIANOLLA