III domenica di Quaresima; commento al vangelo

Letture: Esodo 3,1-8a.13-15; Salmo 102; Prima Lettera ai Corinzi 10,1-6.10-12; Luca 13,1-9

Cronaca dolente, di disgrazie e di massacri. Dio dove eri quel giorno? Quando la mia bambina è stata investita, dov’eri? Quando il mio piccolo è volato via dalla mia casa, da questa terra, come una colomba dall’arca, dove guardavi? Dio era lì, e moriva nella tua bambina; era là in quel giorno dell’eccidio dei Galilei nel tempio; ma non come arma, bensì come il primo a subire violenza, il primo dei trafitti, sta accanto alle infinite croci del mondo dove il Figlio di Dio è ancora crocifisso in infiniti figli di Dio. E non ha altra risposta al pianto del mondo che il primo vagito dell’alleluja pasquale. Se non vi convertirete, perirete tutti. Non è una minaccia, non è una pistola puntata alla tempia dell’umanità. È un lamento, una supplica: convertitevi, invertite la direzione di marcia: nella politica amorale, nell’economia che uccide, nell’ecologia irrisa, nella finanza padrona, nel porre fiducia nelle armi, nell’alzare muri.

Cambiate mentalità, onesti tutti anche nelle piccole cose, e liberi e limpidi e generosi: perché questo nostro Titanic sta andando a finire diritto contro un iceberg gigantesco. Convertitevi, altrimenti perirete tutti. È la preghiera più forte della Bibbia, dove non è l’uomo che si rivolge a Dio, è Dio che prega l’uomo, che ci implora: tornate umani! Cambiate direzione: sta a noi uscire dalle liturgie dell’odio e della violenza, piangere con sulle guance le lacrime di quel bambino di Kiev, gridare un grido che non esce dalla bocca piena d’acqua, come gli annegati nel Mediterraneo. Farlo come se tutti fossero dei nostri: figli, o fratelli, o madri mie. Non domandarti per chi suona la campane/ Essa suona sempre un poco anche per te (J. Donne).

Poi il Vangelo ci porta via dai campi della morte, ci accompagna dentro i campi della vita, dentro una visione di potente fiducia. Sono tre anni che vengo a cercare, non ho mai trovato un solo frutto in questo fico, mi sono stancato, taglialo. No, padrone! Il contadino sapiente, che è Gesù, dice: «No, padrone, no alla misura breve dell’interesse, proviamo ancora, un altro anno di lavoro e poi vedremo». Ancora tempo: il tempo è il messaggero di Dio. Ancora sole, pioggia e cure, e forse quest’albero, che sono io, darà frutto. Il Dio ortolano ha fiducia in me: l’albero dell’umanità è sano, ha radici buone, abbi pazienza. La pazienza non è debolezza, ma l’arte di vivere l’incompiuto in noi e negli altri. Non ha in mano la scure, ma l’umile zappa. Per aiutarti ad andare oltre la corteccia, oltre il ruvido dell’argilla di cui sei fatto, cercare più in profondità, nella cella segreta del cuore, e vedrai, troverai frutto, Dio ha acceso una lucerna, vi ha seminato una manciata di luce.

P. Ermes Ronchi
Avvenire

Il testo evangelico odierno si apre con l’annotazione “in quello stesso momento” (Lc 13,1) che lega la pericope liturgica a ciò che precede. Ovvero, al discorso sul discernimento del tempo, sulla capacità di giudicare l’oggi e ciò che è giusto (Lc 12,54-57). È proprio in quel momento che “alcuni” si avvicinano a Gesù e gli riferiscono di un fatto di cronaca, un fatto di sangue sacrilego perché Pilato aveva fatto uccidere dei Galilei mescolando il loro sangue a quello dei sacrifici durante una cerimonia religiosa (Lc 13,1). Non si dice quale sia il fine per cui a Gesù sono riferiti quei fatti che non hanno una relazione immediata con il gruppo dei discepoli e con la sequela di Gesù. Ma a questi fatti, sia Gesù che i discepoli non possono rendersi sordi. Ne sono interpellati. E sono chiamati a un discernimento e a un giudizio. A una lettura di fede. La fede non può restare estranea ai fatti di quel mondo che è il destinatario della cura e della sollecitudine di Dio. E il giudizio che Gesù è libero, svincolato da credenze teologiche diffuse e luoghi comuni spirituali.

Gesù spezza il legame tra peccato e disgrazia: egli non vede dei peccatori, ma degli umani, non va in cerca di un colpevole, ma vede la vittima del male. Il suo sguardo è compassionevole, non giudiziale. Ma soprattutto è libero: non si adagia sul già detto, non ripete il ritornello teologico che pretende di trovare un senso anche là dove non c’è. Gesù è molto libero, ha coraggio e dimostra molta fiducia in sé. Non è esitante: sta affermando, anzi sta polemizzando. La domanda: “Pensate forse che…?” (Lc 13,2.4) esprime l’opposizione ferma a un’opinione diffusa, che cioè disgrazia e morte siano causati dai peccati commessi. La forza di Gesù si esprime nel suo credere nel proprio pensiero, nella convinzione che lo anima e che lo conduce a uscire da rassicuranti schemi teologici. Gesù non può certo essere accusato di conformismo: la fiducia che mostra in sé e la convinzione che lo abita lo rendono una potenza che spazza via abitudini e denuncia pigrizie, anche intellettuali e spirituali. Ma questo ardore si fonda sullo zelo per il Signore.

Per questo Gesù si impegna in una lettura e interpretazione degli eventi successi. Che hanno dunque una parola da dire: sono un invito a conversione. Non certo che Dio mandi eventi calamitosi perché l’uomo si converta. Sarebbe blasfemo. E tuttavia per non abbandonare gli eventi a se stessi e perché gli eventi non abbandonino noi, e restino una mera serie di accadimenti senza nesso e senza senso, occorre ascoltare gli eventi stessi e osare parole su di essi, occorre la fatica e il rischio dell’interpretazione. Sapendo che ogni interpretazione non è definitiva e unica, ma che ha il compito di aiutare a vivere. E di rispondere al mandato di vivere davanti a Dio in questo mondo. Perché è proprio a vivere “in questo mondo”, non fuori di esso, che Gesù ci insegna (cf. Tt 2,12). Gesù poi aggiunge di suo il riferimento a un fatto di cronaca, anch’esso luttuoso: il crollo della torre di Siloe che ha provocato la morte di diciotto persone (Lc 13,4). Siamo sul piano della storia: un evento politico-militare e una disgrazia.

La successiva parabola (Lc 13,6) si situa invece sul piano della natura: un fico non dà frutti da tre anni. Ma si parla anche dell’intervento del vignaiolo che decide di lavorare il fico ancora un anno, zappando e concimando, affinché possa dare frutti. Vediamo così due atteggiamenti opposti: un intervento violento che produce morte, quello di Pilato, e un intervento di cura che intende portare vita a un albero già condannato a morte dal padrone. Esiste un filo rosso che unisce la prima parte del testo (vv. 1-5), in cui c’è una conversazione, e la seconda (vv. 6-9), in cui al cuore della parabola vi è pure una conversazione, anzi, un dialogo vero e proprio. E il filo rosso è la morte: morte violenta dei galilei uccisi; morte accidentale delle persone schiacciate dal crollo della torre; morte di cui è minacciato l’albero. Interessante il dialogo conflittuale che si svolge intorno ad esso. “Taglialo” dice il padrone (v. 7); “Lascialo” ribatte il vignaiolo (v. 8).

Alla luce dell’orizzonte della morte si comprende l’invito alla conversione che Gesù fa. Si tratta della morte di altri, di altre persone nei due primi esempi, e di morte minacciata nella parabola (e se anche si tratta di un albero e non di esseri umani, il fico, che è anche figura di Israele, ha una portata simbolica). La morte di altri diviene motivo non certo per colpevolizzare le vittime (“Pensate forse che costoro fossero più peccatori o colpevoli degli altri per aver subito tale sorte?”: cf. vv. 2.4) e nemmeno per dare risposte spiritualizzanti o rassegnate: non si fa riferimento né alla volontà di Dio né al destino. Ci sono eventi che accadono e che recidono la vita da un momento all’altro.

Sono eventi di cui non abbiamo responsabilità, e tuttavia Gesù indica una via attraverso la quale essi possono parlarci e divenire transitivi, così da non perdersi totalmente nel non-senso, ma divenire capaci di ri-orientare la vita di altri. Il problema è una morte a cui non si è preparati, che ci sorprende improvvisamente, inopinata, inattesa, che ci coglie nell’incoscienza, nella non consapevolezza. Gesù, facendo di quei casi l’occasione di un invito alla conversione, esorta a vivere con coscienza la propria vita, l’oggi, il tempo a disposizione, e a vivere consapevolmente la novità del vangelo e del Regno di Dio che è stato instaurato. La morte è ciò che dà forma alla vita: quando sopravviene, essa dichiara che cosa è stata la nostra vita, ne dà la forma compiuta. La non-consapevolezza, invece, è nemica della responsabilità, che è anzitutto responsabilità della nostra vita.

Gesù dunque avverte che si può imparare dagli eventi. Il fatto della morte di alcuni diviene avvertimento per altri: “Se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo”. In fondo anche la parabola del fico improduttivo pone un problema analogo. Questo albero di fico è vivo, ma in realtà è morto, visto che non produce nulla. Facendo il parallelo con altri testi lucani possiamo dire che è nella condizione di ciò che è perduto, morto, ma che suscita l’interesse del Signore che va in cerca e salva ciò che era perduto (Lc 19,10: Zaccheo); è nella condizione del figlio minore della parabola che, dice il padre, “era morto, ed è tornato in vita” (Lc 15,32); o possiamo pensare anche al malfattore sulla croce, un condannato a morte a cui Gesù promette: “Oggi sarai con me in paradiso” (Lc 23,43). Siamo di fronte alla narrazione della pazienza del Signore che non vuole morte ma conversione, e per questo si sottomette ai tempi dell’altro. Se l’annuncio del Battista diceva che ormai la scure è posta alla radice degli alberi e ogni albero che non produce buon frutto viene tagliato e gettato nel fuoco (Lc 3,9), qui alla logica della scure e del taglio si oppone la logica del lavoro, della pazienza e dell’attesa. Il lavoro del contadino appare qui come una terapia, un’opera di guarigione, un lavoro che cerca di ottenere la guarigione di un albero che è infruttifero da molto, troppo tempo. Forse non è un caso che subito dopo la parabola del fico infruttuoso da tre anni, Luca riporti un racconto di guarigione, quello della donna che era inferma da diciotto anni (Lc 13,10-13).

Dunque, di fronte al padrone della vigna che gli comanda di tagliare l’albero, il contadino dice di no. Oppone quel lascialo, àfes, che è il verbo usato anche per indicare la remissione dei peccati e la liberazione dal male. Il contadino obietta. Obbedendo, eseguendo l’ordine non entrerebbe in conflitto con il padrone e avrebbe anche una pianta in meno da lavorare e forse da lavorare inutilmente come negli ultimi tre anni. Ma il contadino mostra di credere al cambiamento possibile. Crede che una novità può intervenire e che il frutto può spuntare. E paga il prezzo di questa novità possibile per quanto non certa. Egli impegna se stesso, promette il suo lavoro, chiede pazienza, chiede di far fiducia anche contro l’evidenza. Almeno, per un altro anno. Va notato che l’atteggiamento di obiezione del contadino è in linea con la libertà e l’audacia di Gesù che, nella prima parte del testo, si oppone a una credenza diffusa.

Qui il contadino fa mostra della sua libertà dicendo di no al padrone e addirittura, dopo avergli chiesto di lasciarglielo ancora un anno per curarlo e lavorarlo, aggiunge: e se non darà frutti, tu lo taglierai. Dove il contadino, che quella pianta conosce, avendola lavorata e amata, si rifiuta di tagliarla. Se proprio vuoi, la taglierai tu, ma non io. Il contadino oppone un altro no al padrone. A dire che l’obbedienza non è sempre e comunque una virtù, né umana né evangelica. E che a volte è molto più facile e comodo dire di sì, sia esplicitamente, che implicitamente, restando dove e come si è, senza aprirsi al nuovo che interviene nella vita, senza assumere la responsabilità della propria vita. Il contadino apre uno spazio di fiducia alla pianta. Certo, se ne assume anche il rischio: nulla gli garantisce ora il buon esito della sua iniziativa. Del resto: chi conosce i tempi in cui un uomo può dare frutti e convertirsi? Se perfino questo contadino, che assomiglia tanto a Gesù, non si erge a padrone dei tempi dell’altro e non taglia l’albero infruttuoso, chi siamo noi per fare diversamente?

Fr. Luciano Manicardi
Monastero di Bose