Il tempo che precede la Pasqua intende promuovere la sapienza del rallentare il passo, dello sfrondare le vite da tutti quegli elementi inessenziali che le ingolfano, così che possa emergere il cuore dell’Evangelo, il Cristo morto e risorto. Quaranta giorni, un tempo liturgico che rimanda ai quarant’anni nel deserto, in cui Israele ha imparato a lasciarsi nutrire direttamente da Dio. Per noi, un tempo di verifica per interrogarci sulla nostra bulimia di passioni tristi, che impediscono alla gioia pasquale di fluire.
Un tempo per rivisitare la nostra dieta spirituale e interrogarci sulle carenze alimentari: che ruolo ha la preghiera, quel dialogo prezioso con Dio? Che ruolo gioca la comunità di fede, dove Dio mi parla attraverso la voce di sorelle e fratelli? Che peso riveste la Parola che, come buon pane, sfama e fortifica? L’esodo di Gesù, dalla morte alla vita, è come un parto. La quaresima, un tempo di gestazione per custodire e far crescere in noi la speranza della nuova vita.
Quando il travaglio ha inizio, non lo si può sospendere. E così anche noi, nel tempo che precede la Pasqua, attendiamo di cogliere quelle contrazioni vitali dell’animo che ci fanno percepire i vagiti della rinascita. Dolore, fatica, ma anche gioia. Moti dell’animo contraddittori, per tenere assieme l’annuncio della vita nell’agonia dell’ultima ora.
Ogni anno torniamo sulla scena-madre della fede cristiana, la pasqua di Gesù per riconoscere che qualcosa di quella scena ci sfugge. Più cerchiamo di comprenderla e più sentiamo che ci resiste. Come tenere insieme il piano di Dio («bisogna che il figlio dell’uomo soffra…») e le scelte umane («tennero consiglio per farlo morire…»)? Una questione che emerge già nella prima pasqua, quella dall’Egitto: è Dio che indurisce il cuore del faraone o è quest’ultimo a indurirlo per libera scelta?
E poi, il problema dei problemi: come interpretare il «per noi» di quella morte cruenta? Espiazione, dono, esito di una vita? Certo, nel conflitto delle interpretazioni fornite in duemila anni di cristianesimo, qualche evidenza rimane. Impossibile non vedere in quella scena il capovolgimento dell’immaginario religioso che, da sempre, ha pensato un Dio che domanda all’umanità di sacrificarsi per Lui; mentre sul Golgota è Dio che si sacrifica per noi. Sulla croce scorgiamo un volto di Dio differente da quello percepito dal sentire comune; lì, si rivela il Dio di grazia. Partiamo da qui, dalla rivelazione che sta al cuore della scena della croce, laddove il velo del tempio si squarcia e noi intravvediamo il volto di Dio.
Volto inedito. Quando lo potevamo vedere solo di spalle, lo pensavamo proprio l’opposto. Come il Signore che sta in alto e impone ai suoi subalterni di servirlo. E così la religione ha educato a riconoscere e temere la potenza di Dio. E, nel nome di questo Dio, ha riprodotto il consenso ai potenti della terra, luogotenenti del trono celeste. E ha predicato il mantenimento dell’ordine: «Che un uomo solo muoia per il popolo e non perisca tutta la nazione!».
Anche noi, che riconosciamo nella croce il suo agire salvifico, continuiamo a immaginare Dio secondo quella narrazione religiosa. Narrazione che può accampare tra i suoi meriti il mantenimento dell’ordine e di un certo tipo di pace. E non è, forse, questo il compito della religione, soprattutto oggi, ai tempi dell’imperversare del terrorismo? Non che ci sia niente di male a desiderare un dio che possa garantire una vita tranquilla. Anzi. Ma sulla scena della croce gli immaginari umani sono messi sottosopra.
Quel Figlio, che ci ha fatto conoscere Dio, si presenta inerme, in balia dei poteri, una volta tanto concordi nell’eliminarlo, facendo di lui un maledetto da crocifiggere. Lui, che a lungo aveva preparato i suoi discepoli a prendere la croce, a mettere in conto di perdere la loro stessa vita per causa sua ecco che, una volta arrivata l’ora fatale, si preoccupa di salvarli. Giovanni mette a fuoco questa preoccupazione del Maestro, fino a reinterpretare la vile fuga dei suoi nel congedo voluto da Gesù stesso: «Chi cercate?» Essi dissero: «Gesù il Nazareno». Gesù rispose: «Vi ho detto che sono io; se dunque cercate me, lasciate andare questi» (18, 7-8).
Che cosa significa credere in un Dio così? Proviamo, per una volta, a lasciar cadere la domanda sul «che fare». Non che non ce ne sia bisogno: l’urgenza di agire la percepiamo tutti. La chiesa, al seguito di questo suo Signore, è chiamata a vivere una fede che opera per mezzo dell’amore. Ma, almeno a Pasqua, sospendiamo il consueto operare e diveniamo una comunità inoperosa, in puro ascolto di questa sconvolgente rivelazione del Dio crocifisso. Diamo ascolto a quella voce che il cuore riconosce come venuta da Dio e che dice: «Cercate il mio volto!» (Salmo 27, 8).
Ne saremo capaci? Sapremo fare spazio a quel Dio di Gesù che viene, come un ladro, a rubarci le certezze religiosamente maturate? Perché sulla croce viene trafitta quella ideologia rassicurante che fa di Dio il potente garante delle nostre posizioni acquisite. La sfida, dunque, è quella di stare sulla scena della croce, mettendo a tacere spiegazioni e aspettative troppo umane, per ritornare principianti, in grado di stupirsi per un Dio inimmaginabile, che irrompe nella storia compiendo gesti inattesi.
Lidia Maggi e Angelo Reginato