Le più recenti statistiche epidemiologiche sul disagio giovanile mostrano un quadro davvero inquietante. La diffusione di angoscia, panico, disturbi psicosomatici, anoressie-bulimie, intossicazioni di vario genere comprese quelle provocate dagli oggetti tecnologici, violenza e tendenze suicidarie appare decisamente in aumento dopo il Covid segnalando uno stato di vera e propria emergenza. Non voglio indugiare, come ho fatto in altre occasioni, sul fatto che non bisogna commettere l’errore di identificare questa generazione come vittima inerme del trauma del Covid.Piuttosto vorrei interrogarmi sulla matrice più profonda di questo disagio, ovvero sul rapporto tra le nuove e le vecchie generazioni. Secondo una opinione divenuta comune la causa principale di tutta questa sofferenza, ben al di là del Covid, si deve rintracciare nel carattere disossato dei nuovi genitori che si rivelerebbero del tutto incapaci di assolvere il loro compito educativo.
Una eccessiva preoccupazione di essere amati – che anche personalmente ho più volte segnalato come un sintomo specifico della genitorialità ipermoderna – li rende incapaci di sopportare il conflitto che anima inevitabilmente il rapporto tra generazioni differenti. L’accusa si rafforza diventando una sentenza morale: è il carattere smidollato dei genitori contemporanei, sempre troppo preoccupati a risparmiare ai loro figli il duro impatto con una realtà sempre più precaria, a determinare l’estrema fragilità di questi ultimi.
Ne consegue che la sola possibilità di uscire da questa evidente condizione di crisi sarebbe il ripristino dell’autorità educativa delle vecchie generazioni. Ma in realtà si tratta di un ideale di restaurazione che appare tanto più disperato quanto sempre più irrealizzabile e che, non a caso, ispira la politica della famiglia e della Scuola del nostro attuale governo.
Condannare le nuove famiglie e la Scuola di disertare il loro compito educativo è tanto facile quanto inutile perché da questa crisi non se ne può uscire rievocando nostalgicamente i valori perduti della tradizione. Innanzitutto perché questi valori, prima della più che legittima contestazione del ’68, non offrivano affatto un modello pedagogico positivo.
Tutt’altro: il sequestro della parola, l’abuso di potere, la discriminazione sociale, l’annullamento del pensiero critico, una concezione solo correttiva e punitiva del processo educativo, non mi sembra che possa essere impugnati oggi come punti di riferimenti ideali. Lo sguardo rivolto solo all’indietro non può mai essere in grado di abitare generativamente l’avvenire.
Se analizziamo in modo sintetico le forme prevalenti del disagio psichico delle nuove generazioni colpisce il denominatore clinico che a mio giudizio le accomuna. Si tratta della fatica diffusa ad accendere il proprio desiderio. Strano vero? In un tempo come il nostro che ha sdoganato il piacere da ogni forma di reticenza, di pudore e di morbosità morale, il desiderio non si espande ma tende ad appassire.
E’ un paradosso epocale: l’acquisizione di una libertà di massa inedita non favorisce la presenza del desiderio ma genera la sua tendenziale estinzione. Com’è possibile? Perché le nuove generazioni fanno sempre più fatica a desiderare?
Una prima risposta riguarda il rapporto del desiderio con la Legge. Più la Legge evapora più il desiderio perde il proprio slancio poiché, come ricordava Paolo di Tarso, il desiderio trae la sua spinta trasgressiva proprio dall’esistenza della Legge. Ma anche questa risposta resta ai miei occhi in superficie. In realtà, ed è un problema che lo stesso Paolo si pone, una Legge che si limitasse a contenere il desiderio verrebbe meno al proprio compito, il quale non è tanto quello di interdire il desiderio, ma di renderlo umanamente possibile!
Il problema centrale delle nuove generazioni è, infatti, quello di non riuscire più a cogliere nel desiderio il senso più profondo della Legge. Nella tradizione biblica e in quella psicoanalitica questo senso si chiama “vocazione”. In questa luce il desiderio non appare come antagonista della Legge ma diviene esso stesso Legge. Sicché il desiderio non è più in una contrapposizione morale al dovere, ma assume la forma più pura del “vero dovere”. E non è forse questo ciò che salverebbe la vita dei nostri figli? Essere animati da una vocazione che rende il loro desiderio la forma più alta del loro “vero dovere”? Nondimeno, affinché questo sia possibile è necessario che i nostri figli trovino testimonianze incarnate di questa possibilità – fare del proprio desiderio un dovere – nelle vecchie generazioni.
La cui responsabilità allora non sarebbe tanto quella di essere incapaci nel fare valere l’autorità della Legge, quanto piuttosto nel non riuscire a dare testimonianza credibile del loro stesso desiderio. Di cosa ha necessità un figlio se non nel vedere che vi sia qualcuno che sa vivere su questa terra facendo del desiderio il proprio dovere? Si tratta, allora, per i nuovi educatori di non farsi tanto rappresentati della Legge che disciplina il desiderio, ma nel portare con sé il fuoco del desiderio. E’ quello che accade ne La strada di Cormac Mc Carthy: i “buoni”, di cui i nostri figli smarriti hanno bisogno, sono coloro che sanno ancora portare il fuoco grazie al quale la vita può essere accesa.
Massimo Recalcati