Fra una settimana un gruppo di ragazzi della Parrocchia partirà per il campo vacanza estivo che avrà come meta, due significative città: Roma e Assisi.
Il campo-vacanza che avrà come filo conduttore “Diamo un volto all’amore” si prefigge questo obiettivo: aiutare i ragazzi a maturare una conoscenza positiva di se stessi e degli altri in questo mondo così complesso.
E Dio? come è possibile parlare di Dio a dei ragazzi oggi a prescindere dai sacramenti? Forse che Dio si identifica solo nei riti e nei sacramenti?
Assisi custodisce non solo il corpo e le radici di un vangelo fatto carne nella vita di San Francesco, ma anche la testimonianza di un adolescente: Carlo Acutis, un giovane studente, appassionato di informatica, di grande fede e innamorato della vita. Carlo Acutis è morto di leucemia fulminante il 12 ottobre del 2006. Papa Francesco lo ha dichiarato Beato, in attesa di poterlo annoverare tra i Santi canonizzati riconosciuti dalla Chiesa.
L’intervista che segue, alla madre di Carlo, può aiutarci a riflettere su come l’esperienza che oggi un ragazzo può fare di Dio non insegue ragionamenti, nozioni e strutture, ma avviene nella vita concreta dei nostri giorni.
don Alessandro
A colloquio con Antonia Salzano, mamma del beato Acutis: «Mi ha cambiato la vita. Mi ha fatto vedere un Dio da accogliere perché accogliente, perché in lui realizzo la mia originalità di essere umano»
Dio è semplice. Anzi, Dio è semplicissimo. Incontri i santi e ti rendi conto proprio di questo. Non serve cultura, non serve teologia, non serve particolare preparazione. Dio è lì che ti aspetta e non devi desiderare altro che di accoglierlo nel tuo cuore. Carlo Acutis diceva che «il santo vive la semplicità», la nostra società, invece, ci riempie di inutili sovrastrutture che impediscono di essere semplici, spesso, anzi, ci rendono superbi. Così superbi da ritenere, più o meno consciamente, che semplice faccia rima con sprovveduto e l’umile vada a braccetto con l’ingenuo. «Mio figlio Carlo era semplicissimo», sottolinea Antonia Salzano, la mamma di Carlo Acutis. Una semplicità immediata che si traduceva tale e quale nella sua relazione con Dio: «Diceva che Gesù è alla portata di tutti, si incontra nell’essenzialità e la vicinanza di Carlo con Gesù era immediata e forte al tempo stesso. Più siamo semplici più diventiamo capaci di vederlo, ma anche di mostrarlo». «E se lei mi chiede del volto di Dio, posso dire di averlo incontrato attraverso Carlo, che mi ha mostrato un Gesù misericordioso, accogliente. Un Gesù dal cuore grande come nelle apparizioni di Margherita Maria Alacoque. Vedeva Dio negli ammalati, nei poveri. Chiunque incontrava era il suo Volto».
Antonia Salzano Acutis quando comincia a parlare di suo figlio non conosce ostacoli narrativi o verbali. Le parole fluiscono precise ed efficaci al ritmo del pensiero e di frequenti associazioni di idee. In qualche modo è l’impressione che si ha leggendo il libro scritto da lei stessa con Paolo Rodari “Il segreto di mio figlio” (Piemme, pagine 299, euro 17,90). La differenza è che di persona ci si rende subito conto che quel segreto (se ci può essere segreto nella vita di un santo) è destinato a svanire alle prime battute, nel sorriso coinvolgente di questa mamma, che è davvero difficile non incrociare con quello sereno e penetrante delle foto di suo figlio. Soprattutto se hai la ventura di incontrarla nel giardino del nascente “Centro Carlo Acutis”, sulla strada che dalle mura di Assisi sale all’Eremo delle Carceri. Un luogo per l’accoglienza e l’accompagnamento all’incontro con Dio, voluto dalla famiglia Acutis così che possa diventare una sorta di estensione della spiritualità di Carlo che della città di san Francesco era innamorato. Di fronte, a perdita d’occhio, c’è la piana che si stende sotto Assisi con i luoghi in cui iniziò l’avventura francescana, da Santa Maria degli Angeli con la Porziuncola ai tuguri di Rivotorto. Entusiasmo e concretezza. Esattamente come il modo in cui la mamma racconta del figlio: «Per lui niente accadeva per caso, credeva nella Provvidenza. Diceva che “la conversione non è un processo di aggiunta, ma di sottrazione: meno io per lasciare posto a Dio”. “Non io ma Dio”. “Non l’amor proprio, ma la gloria di Dio”. In questo era esigente: “A che mi giova vincere mille battaglie – diceva – se poi non sono capace di vincere me stesso?”».
Prima ha ricordato la semplicità di Carlo…
Poneva la sua vita in Dio e aveva compreso molto presto che più si è semplici meglio si riesce a vedere e mostrare il suo Volto. Il suo modo di avere fede era semplice, umile. Già a pochi anni se vedeva una chiesa mi tirava dentro e non voleva più uscire: «Restiamo ancora un po’, mamma». Ha fatto la comunione a 7 anni e sul suo computer ha scritto: «Essere uniti a Gesù, questo è il mio programma di vita». E poi tutti i giorni andava a messa, faceva adorazione eucaristica e la preghiera del rosario. Diceva: «L’Eucaristia è la mia autostrada per il cielo. Di fronte al sole ci si abbronza, ma di fronte a Gesù Eucaristia si diventa santi».
L’Eucaristia era il suo riferimento?
Diceva che con l’Eucaristia il Signore entra a fare parte del nostro corpo, che ogni volta che facciamo la comunione non siamo più le stesse persone. Diceva che come Mosé scendendo dal monte Sinai dopo aver incontrato Dio era luminoso così capita anche a noi dopo aver fatto adorazione: non ce ne rendiamo conto, ma il Signore ci trasforma, ci divinizza.
Faccia a faccia con Dio…
Diceva proprio così: «L’Eucaristia ci mette faccia a faccia. Noi siamo come una stanza buia: ognuno con la sua oscurità e l’Eucaristia è un fascio di luce che entra e ci fa vedere il pulviscolo che normalmente non vediamo» e ci chiama a migliorare. «Se la gente – sottolineava – fosse consapevole dell’importanza dell’Eucaristia, in Chiesa ci sarebbero più persone che ai grandi concerti che alle partite di calcio». E con la mostra sui miracoli eucaristici, che gira ancora il mondo, voleva condurre le persone a Dio, accompagnarle a vedere il suo Volto, a visitare un tabernacolo con la stessa devozione con cui si fa un pellegrinaggio a Gerusalemme. Diceva che noi siamo molto più fortunati di chi visse in Palestina al tempo di Gesù perché non abbiamo bisogno di farci largo fra la folla per vederlo, ma ci basta entrare in un chiesa e abbiamo la certezza che Lui è lì, nel tabernacolo. Desiderava che tutti amassero l’Eucaristia e credeva molto alla necessità della preghiera riparatrice per le offese a Gesù eucaristico, come indicato dall’angelo ai Pastorelli di Fatima.
Amare l’Amore come scelta di vita?
Per Carlo era la scelta strategica. Tutto per lui ruotava intorno a questo. Se sono in un deserto sotto il sole cocente, diceva, e da un giorno non bevo, vedo un’oasi e corro verso l’acqua, se ho un bicchiere piccolo prendo quella per me, se ho un contenitore grande ne posso prendere anche da dare agli altri. La differenza è nella capacità di amare, di contenere l’amore da donare, perché è l’amore accolto e donato che ci realizza, ci rende a immagine e somiglianza.
Siamo sempre lì: fede semplice, amore, umiltà…
Semplice, lineare: «Il Padre ha un trono in cielo, il Figlio ha il trono dell’Agnello, ma lo Spirito Santo ha il trono nei nostri cuori. E noi dovremmo sentirci come tabernacoli viventi». Questa era la sua logica. E aggiungeva che Cristo lo si vede nell’umiltà, Lui che dalla condizione di infinito è passato a una condizione di finito. Si è incarnato in Maria che, umile anch’ella, è diventata il primo tabernacolo vivente. Incontrare gli umili è vedere Dio. Nella debolezza vediamo il suo Volto. Siamo andati tre volte a vedere la Sindone e lui era sempre molto emozionato, colpito dalla regalità di quel volto sofferente: «Trasuda divinità», diceva. Conosceva il Volto di Manoppello ed è voluto andare a vedere il sudario di Oviedo.
Si sentiva un tabernacolo vivente?
Era impegnato a far emergere il volto di Dio che era in lui in un costante lavoro di ascesi. Tutto ciò che era bene lo riferiva a Dio, tutto ciò che in sé trovava di male lo riferiva a se stesso. Ogni sera era il suo esame di coscienza… e si metteva i voti. Il tempo lo considerava come una creatura di Dio e spiegava che Gesù, l’eterno, aveva assunto il tempo e lo aveva divinizzato mostrandoci come viverlo in chiave di eternità. Per questo il tempo non va sciupato per fare cose che non servono ad avvicinarci a Dio.
Fare di ogni momento, di ogni incontro un passo sulla strada della fede?
Lui lo chiamava incrociare la fede con la vita quotidiana. Oggi quasi sempre separiamo la fede dalla vita come se fossero cose distinte. Ma come suggeriva Carlo bisogna cominciare a incrociare fede e vita partendo dalle piccole cose, poi per le grandi cose ci pensa Dio. E poi nutrirsi di amore attraverso l’Eucaristia, perché la mia capacità di amare aumenta nella misura in cui Lui mi aiuta. «Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui»: questo Carlo lo prendeva alla lettera ricordando che dobbiamo diventare Vangelo vivo se vogliamo che in noi si mostri il Volto di Dio; che in ognuno c’è un progetto di originalità che possiamo attuare solo restando con Dio, che ci è vicino, che desidera stare con noi. Se perdo quella vicinanza perdo anche la mia occasione di essere originale e finisco, come diceva lui, per diventare una fotocopia. Ma ogni giorno, in ogni momento posso sempre ricominciare da zero.
Con quali strumenti?
Credeva ciecamente nella Misericordia di Dio e per questo invitava a non disprezzare gli strumenti di salvezza che ci sono stati messi a disposizione attraverso la Chiesa: per prima cosa i Sacramenti, in particolare la Confessione, l’Eucaristia, l’Unzione degli infermi, che Carlo prendeva tutti gli anni perché, diceva, l’Unzione guarisce le nostre ferite. Poi i sacramentali come l’acqua benedetta, ma anche le indulgenze, l’acqua che sgorga nei luoghi delle apparizioni mariane… La preghiera del rosario che più volte la Madonna ha indicato come fonte di grazia…
Cosa ha significato vivere con un figlio così?
Mi ha cambiato da subito. Venivo da una vita che come per tanti di noi è lontana dalla fede vera. Io nel seguirlo mi stupivo ogni giorno. Correva avanti nel tempo, non ne sprecava un attimo. A tre mesi ha detto la prima parola, a 4 anni leggeva e scriveva. Aveva gli occhi luminosi. Era di una purezza straordinaria. Ogni volgarità, ogni bestemmia gli dava fastidio, ma non era bacchettone, anzi risultava simpatico e questo gli consentiva di avvicinare e aiutare tutti. Quando nel ’95 è morto mio padre mi sentivo svuotata. Carlo mi ha aiutato anche in questo. A 5 anni mi ha detto di averlo visto in Purgatorio. Ecco, mi ha mostrato un Gesù misericordioso, accogliente, semplice, essenziale, vicino, alla portata di tutti. Una semplicità, una vicinanza che andrebbe rivalutata anche nella Chiesa.
Roberto I. Zanini (l’avvenire)