In quel tempo, Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto, per essere tentato dal diavolo. Dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, alla fine ebbe fame. Il tentatore gli si avvicinò e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, di’ che queste pietre diventino pane». Ma egli rispose: «Sta scritto: “Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio”». […]
È bella la Quaresima. Non si impone come la stagione penitenziale, ma si propone come quella dei ricominciamenti: della primavera che riparte, della vita che punta diritta verso la luce di Pasqua. Un tempo di novità, di nuovi, semplici, solidali, concreti stili di vita, a cura della “Casa comune” e di tutti i suoi abitanti. Dì che queste pietre diventino pane! Il pane è un bene, un valore indubitabile, santo perché conserva la cosa più santa, la vita. Cosa c’è di male nel pane? Ma Gesù non ha mai cercato il pane a suo vantaggio, si è fatto pane a vantaggio di tutti. Non ha mai usato il suo potere per sé, ma per moltiplicare il pane per la fame di tutti. Gesù risponde alla prima sfida giocando al rialzo, offrendo più vita: «Non di solo pane vivrà l’uomo».
Il pane dà vita, ma più vita viene dalla bocca di Dio. Dalla sua bocca è venuta la luce, il cosmo, la creazione. È venuto il soffio che ci fa vivi, sei venuto tu fratello, amico, amore mio, che sei parola pronunciata dalla bocca di Dio per me e che mi fa vivere. Seconda tentazione: Buttati giù dal pinnacolo del tempio, e Dio manderà un volo d’angeli. La risposta di Gesù suona severa: non tentare Dio, non farlo attraverso ciò che sembra il massimo della fiducia in lui, e invece ne è la caricatura, esclusiva ricerca del proprio vantaggio. Il più astuto degli spiriti non si presenta a Gesù come un avversario, ma come un amico che vuole aiutarlo a fare meglio il messia.
E in più la tentazione è fatta con la Bibbia in mano: fai un bel miracolo, segno che Dio è con te, la gente ama i miracoli, e ti verranno dietro. E invece Gesù rimanderà a casa loro i guariti dalla sua mano con una raccomandazione sorprendente: bada di non dire niente a nessuno. Lui non cerca il successo, è contento di uomini ritornati completi, liberi e felici. Nella terza tentazione il diavolo alza la posta: Adorami e ti darò tutto il potere del mondo. Adora me, segui la mia logica, la mia politica. Prendi il potere, occupa i posti chiave, imponiti. Così risolverai i problemi, e non con la croce. La storia si piega con la forza, non con la tenerezza. Vuoi avere gli uomini dalla tua parte, Gesù? Assicuragli tre cose: pane, spettacoli e un leader, e li avrai in pugno.
Ma per Gesù ogni potere è idolatria. Lui non cerca uomini da dominare, vuole figli che diventino liberi e amanti. Allora angeli si avvicinarono e lo servivano. Il Signore manda angeli ancora, in ogni casa, a chiunque non voglia accumulare e dominare: sono quelli che sanno inventare una nuova carezza, hanno occhi di luce, e non scappano. Sono quelli che mi sorreggeranno con le loro mani, instancabili e leggere, tutte le volte che inciamperò.
Letture: Genesi 2,7-9; 3,1-7; Salmo 50; Romani 5,12-19; Matteo 4,1-11
Ermes Ronchi
Avvenire
La prima domenica di Quaresima presenta sempre il racconto evangelico delle tentazioni di Gesù. In questa annata liturgica A il testo è quello di Matteo (4,1-11). Il testo si apre con una importante annotazione: “Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto per essere tentato dal diavolo” (Mt 4,1). La prima azione spirituale, mossa cioè dallo Spirito santo, compiuta da Gesù subito dopo aver ricevuto il battesimo da Giovanni, è stata il faccia a faccia con il tentatore. Non visioni celesti, ma la visione della possibilità dell’idolatria, della possibilità del male che attraversa il proprio cuore: questa l’azione a cui Gesù è guidato dallo Spirito.
Perché il luogo della tentazione, per Gesù come per ogni essere umano, non è tanto il deserto (Mt 4,1-4) o il tempio della Città santa (Mt 4,5-7) o un monte altissimo (Mt 4,8-11), ma il cuore, il cuore che conosce le aridità e i miraggi del deserto, il cuore che subisce le seduzioni e gli inganni del sacro e del religioso, il cuore che nutre illusioni di altezze e di glorie che danno le vertigini. Detto altrimenti: il mondo in cui abitiamo è il mondo che ci abita, che vive nel nostro cuore. E Gesù affronta le tentazioni aderendo fedelmente alla sua realtà umana e creazionale, restando uomo e umano, custodendo il suo cuore di carne. Egli dice: “Non di solo pane vivrà l’uomo (ho ánthropos)” (Mt 4,4; Lc 4,4), e si tratta anzitutto di quell’uomo che è Gesù stesso.
Gesù attraversa la tentazione, non la rimuove. Cioè, egli accetta di misurarsi con essa in se stesso: non proietta l’immagine del nemico su realtà esterne, ma accetta che la potenza della tentazione si dispieghi nell’intimo, nel cuore. Solo chi vince la potenza del divisore in se stesso può cacciare i demoni dagli altri umani. E Matteo ci mostrerà Gesù impegnato in questa vittoriosa attività esorcistica in cui la potenza della sua stessa parola caccerà i demoni dagli umani (Mt 8,16.28-34).
La vittoria di Gesù è interiore e spirituale: egli vince ricordando la Parola di Dio. E la parola ricordata gli fa ripercorrere il cammino del popolo dopo l’uscita dall’Egitto. Le tentazioni matteane riproducono il cammino di Israele nei quarant’anni nel deserto rinviando (attraverso le tre citazioni del Deuteronomio in bocca a Gesù) a tre episodi fondamentali dell’esodo: la manna e le quaglie (cf. Es 16, a cui rinvia la citazione di Dt 8,3 su ciò che nutre veramente l’uomo); Massa e Meriba (cf. Es 17,1-7, a cui rimanda la seconda risposta di Gesù tratta da Dt 6,16, che proibisce di mettere alla prova Dio); il vitello d’oro (cf. Es 32, a cui siamo indirizzati dalla terza citazione, Dt 6,13, sull’adorazione rivolta a Dio solo). Il ricordo della Parola di Dio, la memoria Dei, è ciò che guida Gesù alla vittoria. E la memoria Dei non è semplice ricordo di frasi bibliche, ma evento spirituale che interiorizza la presenza di Dio nel cuore dell’uomo.
Tuttavia noi dobbiamo interrogarci: perché le tentazioni di Gesù sono tentazioni? Ovvero: siamo così sicuri che tutti ci scandalizzeremmo e grideremmo alla bestemmia se trovassimo scritto nei vangeli un racconto di miracolo in cui Gesù muta pietre in pane? O dà compimento letterale a un brano scritturistico come il Sal 91? In realtà le tentazioni sono tali perché attentano all’umanità di Gesù, dunque al suo essere immagine e somiglianza di Dio: e Gesù reagisce custodendo austeramente e con vigore la propria umanità, senza scendere nel subumano e senza innalzarsi nel sovrumano. E così custodisce anche l’immagine di Dio rivelata dalle Scritture e non vi sostituisce una propria immagine “manufatta”. Significativamente nelle tentazioni Gesù non ha parole sue, ma solo della Scrittura.
La tentazione si fa sentire nel momento della debolezza, nel momento in cui Gesù, dopo il lungo digiuno, prova fame. Che cosa lo sazierà? La risposta che Gesù dà al diavolo nella prima tentazione in realtà vale per tutte quante le tentazioni: “Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio” (Mt 4,4 che cita Dt 8,3). L’insegnamento del Deuteronomio è ripreso nel libro della Sapienza: “Non le diverse specie di frutti nutrono l’uomo, ma la tua parola tiene in vita coloro che credono in te” (Sap 16,26).
Ma cerchiamo di leggere e interpretare le tentazioni di Gesù proiettando la loro luce sulla nostra vita. Di fronte alla fame (Mt 4,2-4), Gesù non sovverte la creazione per soddisfare il proprio bisogno: egli non assolutizza il proprio bisogno, non ne cerca una soddisfazione im-mediata e non cede alla tentazione del miracolo che sopprime la fatica e il sudore del lavoro per trarre dalla terra il pane da mangiare (Gen 3,19). Egli non salta la condizione creaturale: Gesù condividerà certamente il pane con molte persone, ma a partire dal poco messo a disposizione da qualcuno, pochi pani e pochi pesci frutto della benedizione di Dio sul lavoro dell’uomo. Gesù non si sottrae cioè alla povertà in cui consiste la verità dell’essere umano. Gesù non evade, con espedienti magici o tecnici (e la tecnica è la forma moderna della magia, capace di manipolare la realtà e di stravolgerla in base all’assunto che tutto ciò che è tecnicamente fattibile può essere fatto), dalla condizione umana. E soprattutto non sfugge la mortalità.
A Gerusalemme (Mt 4,5-7), Gesù rifiuta di fare del tempio lo sgabello della sua affermazione personale, rifiuta la tentazione del prodigioso, dello spettacolare, dello stra-ordinario e non si sottrae al limite del proprio corpo, non impone la propria messianicità alla gente con l’evidenza di una simile ostentazione di forza prodigiosa: gettarsi dal tempio ed essere salvato dagli angeli. Gesù non violenta le coscienze, non le costringe a dargli l’adesione, non piega le Scritture (il salmo 91 citato dal diavolo) a questo utilizzo “impudico”, tutto volto all’affermazione di sé. Gesù non fa delle Scritture una polizza assicurativa e della fede una garanzia di riuscita personale. Gesù resta nella “castità”. E nel rischio di chi accetta incondizionatamente la limitatezza della condizione umana. E anche la mortalità.
Di fronte poi alla vertigine delle altezze cui lo conduce il diavolo (“un monte altissimo”: Mt 4,8-10), alla visione di “tutti i regni del mondo e la loro gloria” (in un impressionante accorciamento temporale e dilatazione spaziale) e alla promessa di potere e gloria, Gesù non si sottrae ai limiti di spazio e tempo costitutivi dell’umanità. Non si sottrae alla mortalità. Gesù non cede alla tentazione del possesso, del potere, del dominio, non si lascia trascinare dal delirio dell’onnipotenza, dal fascino perverso del “tutto”, non cede alla inebriante hýbris del potere e della gloria. Gesù non si fa Dio, non ambisce il tutto, ma custodisce il senso del limite, della unicità di Dio e della distanza rispetto a Lui: “Solo al Signore tuo Dio ti prostrerai, lui solo adorerai” (Lc 4,8). Gesù resta nell’obbedienza a Dio e alla propria creaturalità.
Alla luce di queste osservazioni un aspetto della dinamica della tentazione che viene alla luce è quello della tentazione come miraggio, come abbaglio, come travisamento della realtà, che induce a scelte tanto convinte quanto illusorie e ingannevoli. La tentazione come non adesione alla realtà. Non a caso secondo Matteo, le tentazioni sono portate a Gesù dal diavolo, dal dia-bolos, cioè dal divisore. Non si tratta di entrare in speculazioni sulla natura del diavolo, ma di percepire che è diabolico l’esito della tentazione nel senso che opera divisione, ci divide: e se ci divide da Dio, essa anzitutto ci divide dalla realtà. Se la fede è adesione a Dio, essa inizia con l’adesione alla realtà, fuori della quale vi è solo idolatria o patologia.
Mutare le pietre in pane, ovvero, cadere nel delirio di onnipotenza. Credere che siamo più forti delle resistenze che la realtà oppone alla nostra umanità, alla nostra volontà, al nostro desiderio, alla nostra fragilità. Crediamo assurdamente che quelle pietre che pietre sono e resteranno sempre, possano diventare pane. La seconda tentazione ci presenta un Gesù invitato a buttarsi dal punto più alto del Tempio. La tentazione dell’annichilimento di sé, dell’autodistruzione, del suicidio. Del rifiuto della realtà che si spinge fino alla negazione della propria vita, del distacco dalla realtà che giunge fino a preferire la morte al vivere. Colpisce che questa che è la lettura più immediata ed evidente del testo non sia praticamente mai esplicitata nei commentari. Anche se il testo stesso la contempla e la suppone: infatti si tratta di una sorta di sfida posta dal diavolo sulla promessa che gli angeli salveranno Gesù da quella caduta mortale.
Gettarsi dal Tempio ha come esito lo sfracellarsi al suolo. Anche qui il divisore opera la divisione della persona dalla realtà e dalla vita stessa. Infine, la terza tentazione avviene su un monte altissimo e da questa altezza il diavolo fa vedere a Gesù tutti i regni del mondo e la loro gloria: “tutto” è offerto a Gesù in cambio dell’adorazione al diavolo. Qui abbiamo più che mai l’immagine della tentazione come miraggio, come abbaglio, come allucinazione. Gesù non legge quella capacità di vedere in un momento il mondo intero e la sua gloria come esperienza spirituale particolarissima, come dono di Dio, come azione della grazia, ma, invece e appunto come visione distorta, come visione irreale della realtà, come allucinazione. Perché è sempre la concreta realtà la misura dell’autenticità dell’esperienza spirituale.
Luciano Manicardi
Monastero di Bose