DdL Zan: «Identità di genere»: nodi problematici

La discussione sul DDL Zan si è prevalentemente sviluppata sul tema della libertà di opinione e sul rischio di una censura nei confronti di chi non condivide la concezione della sessualità adottata nel testo. Lasciando spesso in secondo piano il contenuto di questa concezione. Che invece vale la pena di esaminare attentamente.

Perché il testo non si riduce – come dicono i suoi sostenitori – alla tutela di soggetti emarginati e perseguitati per la loro diversità sessuale. A questo sarebbe bastato il DDL Scalfarotto (che il testo dell’on. Zan ha assorbito e sostituito), in cui ci si limitava a rendere più pesanti le pene per i reati «fondati sull’omofobia o sulla transfobia», senza tirare in ballo le definizioni generali oggi contestate, inevitabilmente legate a una visione complessiva (e dunque filosofica) della persona.

Ed è proprio tale visione, non la tutela in sé stessa (su cui tutti, almeno a parole, dicono di essere d’accordo), a suscitare le divergenze nei confronti del DDL che il Senato si accinge a discutere e probabilmente ad approvare, riconoscendo e rendendo vincolanti nel nostro ordinamento giuridico delle categorie concettuali proprie delle gender theories, contenute nel testo Zan.

L’«identità di genere»

Ma quali sono questi contenuti «teorici»? Uno, in particolare, ha determinato una decisa opposizione anche da parte di 17 associazioni femministe, tra cui Arcilesbica. Si tratta della definizione, contenuta nell’art. 1, dell’«identità di genere»: «Per identità di genere si intende l’identificazione percepita e manifestata di sé in relazione al genere, anche se non corrispondente al sesso, indipendentemente dall’aver concluso un percorso di transizione».

Mentre il sesso è costituito da quell’insieme di caratteri biologici e morfologici, inscritto nella corporeità di una persona fin dalla sua nascita, per cui si è maschio oppure femmina, ed è dunque un dato oggettivo, l’«identità di genere» dipende dalla percezione che il soggetto ha di sé anche se questa non corrisponde al sesso. E ciò anche se non ha già «concluso un percorso di transizione», in altri termini, anche se non ha ancora «cambiato sesso» con l’aiuto di interventi chimici o chirurgici.

Ora, che si possa distinguere tra il sesso biologico e la percezione soggettiva della propria «identità di genere» (nella stragrande maggioranza dei casi, peraltro, corrispondente al sesso), è un dato di fatto. Non si nasce uomo, come non si nasce donna. Il dato anagrafico trova la sua piena realizzazione quando il maschio e la femmina se ne appropriano attraverso la loro crescita complessiva.

Ma fissare come normativa, in un testo legislativo, questa «identità di genere», a prescindere dal sesso, significa mettere in secondo piano, in linea di principio, la dimensione fisica, biologica, corporea, di una persona, e privilegiare unilateralmente la sua percezione soggettiva. E questo non è più un dato ma, per quanto molti si accaniscano a negarlo, una teoria – o, per chi preferisce, una ideologia –, una concezione della sessualità, che, se fatta propria dall’ordinamento, non può non creare dei problemi, anche al di fuori delle questioni specifiche affrontate nel DDL Zan.

Il rispetto delle donne

Un esempio lo hanno portato, in un loro documento, le associazioni femministe che hanno protestato contro di esso: «In California 261 detenuti che “si identificano” come donne chiedono il trasferimento in carceri femminili». Con grande allarme delle donne in senso biologico detenute in queste carceri.

Ma ci sono altri casi che balzano agli occhi. Che succederebbe se un individuo caratterizzato biologicamente come maschio dicesse di «sentirsi» donna e pretendesse, perciò, di essere ammesso nel bagno o nello spogliatoio femminile? Negarglielo non significherebbe discriminarlo, misconoscendo la sua «identità di genere»…?

E, nelle discipline sportive in cui è fondamentale la distinzione tra le gare femminili e quelle maschili, basata sulla differenza di sviluppo muscolare, potrebbe essere ammesso alle prime, come concorrente, un maschio che «si sentisse» donna?

Insomma, una simile visione, secondo molti, non rispetta la peculiarità dell’identità femminile e i suoi spazi propri. Nel documento delle associazioni femministe si osserva: «Il “genere” in sostituzione del “sesso” diviene il luogo in cui tutto ciò che è dedicato alle donne può essere occupato dagli uomini che si identificano in “donne” o che dicono di percepirsi “donne”».

Tutto questo merita un ulteriore approfondimento, ma è sufficiente a evidenziare che, sullo sfondo del rapporto tra «sesso» e «identità di genere», si pongono dei problemi reali e che far diventare legge dello Stato un testo che non sembra prenderli in considerazione – ma a cui ci si potrà appellare per altre possibili e imprevedibili applicazioni – è quanto meno un’imprudenza.

L’applicazione educativa della «identità di genere»

Ci sono poi perplessità che riguardano più in generale la corrispondenza della teoria dell’«identità di genere» alla struttura dell’essere umano, per il quale la corporeità – di cui la caratterizzazione sessuale è elemento essenziale – non rappresenta un involucro esteriore secondario, rispetto alla sua identità, ma entra a costituirla. Noi non «abbiamo» un corpo, «siamo» il nostro corpo. Ed esso non è un frammento di materia amorfa, indifferente per il nostro destino, ma esprime in ogni sua manifestazione la nostra personalità.

Questa considerazione assume un particolare rilievo in ambito educativo. Il DDL Zan istituisce una «Giornata contro l’omofobia», che prevede interventi nelle scuole di ogni ordine e grado e sulla cui scia si moltiplicheranno probabilmente analoghe iniziative. L’idea è in sé in linea con la necessità di superare un clima diffuso di discriminazione nei confronti dei «diversi». Il punto critico semmai riguarda le modalità della sua realizzazione.

Non è irragionevole supporre che gli istituti scolastici facciano tesoro del materiale già elaborato appositamente per la formazione degli insegnanti in questo campo. E questo materiale già esiste.

Alcuni anni fa, su commissione di un ufficio governativo, l’UNAR, l’Istituto Beck ha elaborato, con la collaborazione delle associazioni LGBT, tre opuscoli – uno per ogni diverso livello di scuola – con l’unico titolo Educare alla diversità nella scuola, destinati ad essere distribuiti a tutti gli insegnanti (in realtà la distribuzione fu poi bloccata nell’aprile del 2014, da una decisione del MIUR, dopo che il quotidiano dei vescovi Avvenire aveva denunciato la problematicità del loro contenuto). Lo scopo era di combattere ogni forma di discriminazione dei «diversi», con particolare riferimento all’aspetto sessuale.

Proprio in questa polarità veniva infatti individuata la matrice della violenza. Da qui la necessità di superarla: «Nella società occidentale si dà per scontato che l’orientamento sessuale sia eterosessuale. La famiglia, la scuola, le principali istituzioni della società, gli amici si aspettano, incoraggiano e facilitano in mille modi, diretti e indiretti, un orientamento eterosessuale. A un bambino è chiaro da subito che, se è maschio, dovrà innamorarsi di una principessa e, se è femmina, di un principe. Non gli sono permesse fiabe con identificazioni diverse» (Istituto Beck, Educare alla diversità a scuola. Scuola primaria, p.3).

Neutralizzare anziché educare al rispetto

Per rimediare a questa situazione, negli opuscoli in questione si raccomandava agli insegnanti, fin dalla scuola primaria,  di «non assegnare attività diverse a seconda del sesso biologico, di «non usare analogie che facciano riferimento a una prospettiva eteronormativa (cioè che assuma che l’eterosessualità sia l’orientamento «normale», invece che uno dei possibili orientamenti sessuali)» di far capire ai bambini/ragazzi/adolescenti che «i rapporti sessuali omosessuali sono naturali», equiparandoli sistematicamente a quelli etero: «Quindi potremmo ribaltare la domanda chiedendoci: “i rapporti sessuali eterosessuali sono naturali?”» (ivi, p.23). Si chiedeva inoltre di far sempre riferimento, nell’attività didattica, alla famiglia gay, perfino nel proporre di problemi di matematica. Per esempio: “Rosa e i suoi papà hanno comprato tre lattine di tè freddo al bar. Se ogni lattina costa 2 euro, quanto hanno speso?”» (ivi, p.6).

Si tratta di una linea che per superare l’innegabile proliferare della violenza nei confronti dei «diversi», piuttosto che educare al rispetto della diversità, punta sulla sua neutralizzazione, promuovendo l’idea che la polarità sessuale maschio-femmina è irrilevante. Da qui l’impegno sistematico, sul piano educativo, a sganciare l’«identità di genere» dalla corporeità, affidandola unicamente all’ esperienza soggettiva di singoli.

Dal punto di vista pedagogico ci si potrebbe chiedere se sia opportuno caricare di un simile problema personalità ancora molto acerbe (si comincerebbe fin dalla scuola primaria), in una fase della vita in cui l’identità sessuale ha ancora bisogno di definirsi e il riferimento alla propria caratterizzazione sessuale in senso biologico è molto importante.

Ma, più in generale, si tratterebbe di una «rivoluzione culturale», a cui la codificazione giuridica della «identità di genere» contenuta nel DDL Zan darebbe la sua copertura, senza che questo concetto sia stato mai veramente discusso e accettato democraticamente. Giusta o sbagliata che sia questa concezione della persona e della sessualità, non si rischia di introdurre, così, surrettiziamente, un’ideologia di Stato, contro le logiche di una società veramente pluralista?

Sono domande che meritano quanto meno una riflessione. Per non affidare una scelta così gravida di conseguenze all’onda emotiva dell’opinione pubblica e alle pressioni degli influencer.

  • Pubblicato sul sito della Pastorale della Cultura dell’Arcidiocesi di Palermo (www.tuttavia.eu) il 10 luglio 2021.

Giuseppe Savagnone