DOMENICA DI PASQUA, ALLELUIA! commento al Vangelo

Letture: Atti 10,34a.37-43; Salmo 117; Prima Lettera Corinzi 5, 6-8; Giovanni 20,1-9

Il seguente è un commento al Vangelo di Luca 24,1-12 per la Veglia pasquale.

Pasqua ci viene incontro con un intrecciarsi armonioso di segni cosmici: primavera, plenilunio, primo giorno della settimana, prima ora del giorno. Una cornice di inizi, di cominciamenti: inizia una settimana nuova (biblica unità di misura del tempo), inizia il giorno, il sole è nuovo, la luce è nuova. Il primo giorno, al mattino presto, esse si recarono al sepolcro. Luca si è dimenticato il soggetto, ma non occorre che ci dica chi sono, lo sanno tutti che sono loro, le donne, le stesse che il venerdì non sono arretrate di un millimetro dal piccolo perimetro attorno alla croce. Quelle cui si è fermato il cuore quando hanno udito fermarsi il battito del cuore di Dio. Quelle che nel grande sabato, cerniera temporale tra il venerdì della fine e la prima domenica della storia, cucitura tra la morte e il parto della vita, hanno preparato oli aromatici per contrastare, come possono, la morte, per toccare e accarezzare ancora le piaghe del crocifisso. Le donne di Luca sono una trinità al femminile (R. Virgili): vanno a portare al Signore la loro presenza e la loro cura. Presenza: l’altro nome dell’amore.

Davanti alla tomba vuota, davanti al corpo assente, è necessaria una nuova annunciazione, angeli vestiti di lampi: perché cercate tra i morti colui che è vivo? Non è qui. È risorto. Una cascata di bellezza. Il nome prima di tutto: “il Vivente”, non semplicemente uno fra gli altri viventi, ma Colui che è la pienezza dell’azione di vivere. E poi: “non è qui”! Lui c’è, ma non qui; è vivo e non può stare fra le cose morte; è dovunque, ma non qui. Il Vangelo è infinito proprio perché non termina con una conclusione, ma con una ripartenza.

Pasqua vuol dire passaggio: abbiamo un Dio passatore di frontiere, un Dio migratore. Non è festa per residenti o per stanziali, ma per migratori, per chi inventa sentieri che fanno ripartire e scollinare oltre il nostro io. Ed esse si ricordarono delle sue parole. Le donne credono, perché ricordano. Credono senza vedere; per la parola di Gesù, non per quella degli angeli; ricordano le sue parole perché le amano. In noi resta vivo solo ciò che ci sta a cuore: vive ciò che è amato, vive a lungo ciò che è molto amato, vive per sempre ciò che vale più della vita stessa. Anche per me, credere comincia con l’amore della Parola, di un Uomo. Quello che occorre è un uomo / un passo sicuro e tanto salda / la mano che porge, che tutti / possano afferrarla (C. Bettocchi). Quello che occorre è l’umanità di Dio, che non se ne sta lontano, me entra nel nostro panico, nel nostro vuoto, visita il sepolcro, ci prende per mano e ci trascina fuori. E fuori è primavera. Ecco il cuore di Pasqua: il bene è più profondo del male.

P. Ermes Ronchi
Avvenire

Il seguente è un commento al Vangelo di Giovanni 20,1-18 per la Domenica di Pasqua.

Il vangelo del giorno di Pasqua presenta l’esperienza della resurrezione. La scoperta della tomba vuota conduce Maria di Magdala a darne la notizia a Pietro e al discepolo amato: quest’ultimo, entrato nel sepolcro, “vide e credette”. È l’inizio della fede pasquale. Da quel primo giorno della settimana la resurrezione di Gesù diviene anche evento di parola, annuncio, anzi diviene la parola per eccellenza che la chiesa è chiamata ad annunciare e a testimoniare. Tuttavia, nel nostro testo non abbiamo ancora l’annuncio pasquale, anzi, ciò che Maria di Magdala corre a dire ai due discepoli è: “Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto”. Maria, preda della paura e dello sconforto, dà per certezza che il corpo di Gesù sia stato trafugato e la sua preoccupazione verte sul “dove” ora si trovi la salma. Il racconto evangelico mostra dunque il divenire della fede pasquale presentandone il momento incoativo, lo sprigionarsi della scintilla che presto diverrà un incendio.

L’itinerario interiore che condurrà al grido e all’annuncio “È risorto” passa attraverso la presa di coscienza delle evidenze di morte costituite dalle bende e dal sudario che avvolgevano la salma e dal sepolcro in cui essa era stata deposta. L’assenza di fede nella resurrezione viene già anticipata simbolicamente dall’annotazione che “era ancora buio” (Gv 20,1) quando Maria di Magdala si recò al sepolcro. Lei stessa era ancora nel buio. I suoi occhi non erano ancora stati illuminati e resi capaci di vedere al di là delle cose dalla parola della Scrittura (cf. Gav 20,9). E il “buio” nella simbologia giovannea rinvia a ciò che si oppone alla luce (Gv 1,5; 3,19), designa la situazione problematica dei discepoli nell’assenza di Gesù (Gv 6,17), è la condizione di incertezza e sbandamento in cui si trova a vagare chi non segue Gesù (Gv 8,12), chi non crede in lui (Gv 12,46). Insomma, siamo sì al “primo giorno della settimana” (Gv 20,1), ma non è ancora spuntata l’alba, siamo ancora nel buio.

In questo contesto l’evangelista presenta le reazioni di tre discepoli di fronte alla tomba vuota, e soprattutto la fede incoativa del discepolo amato che, viste le bende per terra ed entrato nel sepolcro vuoto, “credette” (Gv 20,8), o meglio, “cominciò a credere”. Solo così si può infatti spiegare l’annotazione che l’evangelista pone a immediato commento di tale “fede”: “Non avevano infatti ancora compreso la Scrittura che egli doveva risuscitare dai morti” (Gv 20,9). La fede pasquale non nasce dalla mera constatazione di una tomba vuota: questa può condurre anche a formulare l’ipotesi di un trafugamento del corpo. I fatti vanno accostati alle parole della Scrittura e da essi illuminati: solo allora essi daranno vita alla fede pasquale. Fede che troverà la sua pienezza con il dono dello Spirito che illumina le menti aprendole all’intelligenza delle Scritture (cf. Lc 24,45).

C’è un’ignoranza della Maddalena (“non sappiamo dove l’hanno posto”: Gv 20,13) e dei discepoli (“non avevano ancora compreso”, lett.: “non sapevano ancora la Scrittura”: Gv 20,9) che accompagna il loro cammino verso la comprensione dell’evento della resurrezione. Questo evento è l’inaudito, l’impensabile, lo sconcertante. È il novum che Dio crea nel mondo. I discepoli sono totalmente impreparati all’evento della resurrezione e faticano ad accedere alla rivelazione. Solo il discepolo amato, proprio per quel nascondimento del mistero di amore che lo lega a Gesù, comincia a intuire e a lasciar spazio nel proprio animo alla novità compiuta da Dio.

Nei primi testimoni accorsi alla tomba vuota emerge l’aspetto emotivo della relazione con quel Gesù che avevano riconosciuto come loro Signore e per cui avevano abbandonato tutto. Maria di Magdala resta smarrita di fronte alla pietra ribaltata dal sepolcro, e corre, come mossa dal timore che sia successo qualcosa di irrimediabile: Maria teme di non poter vedere e toccare il corpo del suo Signore, teme di aver perso ogni punto di riferimento visibile della persona cara, anche l’ultimo, quello caratterizzato da una lapide, un punto fermo inscritto nella terra, ove sia possibile raccogliere memorie e affetti. Maria corre e va subito, istintivamente, da Pietro e dal discepolo amato, i punti di riferimento del gruppo dei discepoli.

I due, a loro volta corrono, e la corsa esprime ansia, desiderio, volontà di non perdere tempo o forse timore che sia già troppo tardi, e il discepolo amato corre più veloce di Pietro. Nel momento in cui il piano emotivo viene lasciato andare a briglia sciolta ognuno esprime se stesso senza più far valere le regole del gruppo. Giunto tuttavia al sepolcro, il discepolo amato attende Pietro e lascia che lui entri per primo, rispettando il primato stabilito dal Signore. Il piano emotivo e affettivo di Maria (che corre dai due discepoli) e del discepolo amato (che aspetta Pietro e lo fa entrare per primo nel sepolcro) restano ordinati e sottomessi all’oggettività comunitaria. Ma per guidare l’emotività e l’affettività alla fede piena occorreranno l’intelligenza della Scrittura e la fede in essa, che è fondamento ineliminabile e oggettivante della fede pasquale e della vita ecclesiale.

L’itinerario di fede dei tre protagonisti è anche un itinerario del vedere: da un vedere che ha per oggetto la pietra ribaltata dal sepolcro e da cui nasce la supposizione che il corpo sia stato trafugato (vv. 1-2), al vedere che si incentra sulle bende (v. 5), poi sulle bende e sul sudario ripiegato (vv. 6-7), a un vedere che vede e basta, vede senza appuntarsi su un oggetto preciso (v. 8), che vede e sfocia su un inizio di fede che dovrà essere completato dall’ascolto delle Scritture (v. 9). Un vedere che vede l’invisibile. La fede cristiana confessa e crede la resurrezione vedendo dei segni di morte. Ma non questi segni introducono alla fede nella resurrezione, bensì solo l’intelligenza dell’amore (il “discepolo amato”) e la fede nelle Scritture. In effetti, nel discepolo amato che “vide e iniziò a credere” vi è come la fede che nasce dall’amore, o meglio, dal credere all’amore con cui si è stati amati: fides ex charitate. Perché non basta che qualcuno ci ami, ma occorre credervi, porre la propria fiducia nell’amore dell’altro.

E comunque, in questa fede vi è anche un non ancora che chiede una pienezza e riguarda il comprendere la Scrittura (v. 9). È la fede nella Parola del Signore e nel suo amore che consente di iniziare a credere la resurrezione in mezzo agli innumerevoli segni di morte che traversano la nostra vita e il nostro mondo. Vivere la fede come fede di essere amati dal Signore è alla base della fede nella resurrezione: il suo amore per noi non termina con la nostra morte. Questa fede, che interpreta il vuoto della tomba, può anche soccorrere la nostra vita nel momento del terrore del vuoto di amore e della paura dell’abbandono che ci fa abitare nella morte. Dietro al discepolo amato vi è infatti ogni discepolo di Gesù che nella storia è chiamato a entrare nella fede del Dio che lo ama.

L’atto di entrare nel sepolcro da parte di Pietro e poi del discepolo amato (vv. 6.8) ha una valenza simbolica. Noi entriamo, durante la nostra vita, in numerosi luoghi di morte (lutti, separazioni, abbandoni, fine di relazioni e di amicizie, incomunicabilità) e lasciamo anche entrare la morte in noi, divenendo noi un luogo di morte per gli altri (chiusura egoistica, arroganza, abuso, violenza, manipolazione, indifferenza). La fede nella resurrezione, che è al cuore della fede cristiana, non coincide con una semplice fiducia nella vita, ma crede la vita che nasce dalla morte grazie alla forza dell’amore di Cristo. Essa consente di entrare nelle situazioni di morte guardando oltre la morte e vivendo la resurrezione, ovvero amando o cercando di amare come Cristo ha amato e, soprattutto, credendo al suo amore per noi.

Il nostro testo è anche attraversato da una domanda: Dove cercare il Signore? Dov’è il Signore? Qual è il suo luogo? Per il discepolo amato, l’assenza stessa del corpo di Gesù diviene per lui evocatrice di una Presenza. La sua visione è animata dall’intuizione spirituale che gli consente di iniziare un processo che giungerà alla pienezza della fede attraverso la testimonianza della Scrittura. Di Gesù restano i segni del corpo morto e assente, sicché il sepolcro (mnemeîon in greco: lett. “memoriale”) è memoria immota, cimiteriale, morta. La Scrittura, che sempre è segno di un’assenza (lo scritto rimpiazza la presenza), è invece memoriale di un vivente e memoria vivificante: accostata al vuoto della tomba essa la riempie di una parola che è all’origine della resurrezione perché è la parola stessa del Dio della vita.

Cercare colui che è assente, vedere colui che non è visibile, trovare colui che non ha un luogo identificabile: questi sono gli elementi che caratterizzano la ricerca del Signore anche oggi. Da fuggire è la pretesa di sapere con certezza dove sia il Cristo, dove sia da cercare e dove no. Ha detto Gesù: “Se qualcuno vi dirà: ‘Ecco, il Cristo è qui, ecco è là’, non ci credete” (Mc 13,21). Gesù invita a una non-fede che è necessaria alla fede nel Risorto. “Non in modo osservabile” viene il Regno, e nessuno può dire “Eccolo qui, eccolo là” (Lc 17,21). Pretendere di individuare e circoscrivere il luogo del Risorto è operazione idolatrica, fatta dai manipolatori del religioso, che non sopportano l’insicurezza e la fatica della ricerca a cui obbliga il non est hic (“non è qui”: Mc 16,6).

Fr. Luciano Manicardi
Monastero di Bose