Ero malato

Ho affrontato, con esito positivo per fortuna, un ricovero ospedaliero per un’operazione chirurgica invasiva, intervento preceduto dal percorso di accertamenti e diagnosi, e seguito dall’inevitabile periodo di convalescenza e ritorno alla “normalità” della vita. Ma già questo aspetto di normalità è tutt’altro che scontato. Non sono ritornato quello di prima, soprattutto perché l’intervento è stato di carattere oncologico.

E perché ora, come tanti che incontro nei giorni di terapia, guardo a un futuro che potrebbe essere di nuovo sorpreso da quanto ho già affrontato, ma forse non risolto del tutto. Un futuro nel quale, ho detto fin da subito, non voglio vivere da ammalato, e nel quale mi sembra bello accogliere in maniera ancor più consapevole e riconoscente il dono della vita, gustata giorno per giorno.

Che la vita andava guardata da un altro punto di vista l’avevo scoperto proprio un anno fa, quando un controllo di routine ha segnalato un dubbio diventato poi certezza con i successivi accertamenti. Improvvisamente mi sono reso conto che non poteva funzionare l’illusione, così diffusa nel nostro tempo, che potevo restare sempre giovane e sano: “Se con l’allungamento della speranza di vita media dei cittadini occidentali è scomparso lo spazio per pensare la naturalità della propria morte, questo è dovuto in verità al fatto che a scomparire ancora più radicalmente è lo spazio interiore per pensare al proprio invecchiamento” (1).

L’esperienza della malattia, dell’intervento invasivo sul mio corpo, della asportazione di una parte per fortuna non vitale, ha aperto così la strada agli interrogativi di fondo: come invecchiare, come prendere atto che non posso rimanere sempre invulnerabile, come pensare alla finitezza della mia vita e al futuro verso il quale sto andando.

Questi interrogativi sono venuti a galla, ancor di più, tre giorni dopo l’intervento, per l’arrivo di una mail inaspettata. Un caro amico, appassionato della storia locale, aveva trovato su un sito di area tedesca la storia di un milite trentino, allora inquadrato nell’esercito austro-ungarico. Solo per la coincidenza del cognome ha pensato di inviarmelo, così, per curiosità. E invece la mail svela la storia del nonno paterno, mai più tornato a casa dalla Grande guerra, morto a soli trenta anni difendendo una patria non sua.

Un nonno del quale noi nipoti sapevamo poco o nulla, una vita breve, ma della quale in quel momento ho sentito di essere parte. Oggi ho ormai più del doppio dei suoi anni, e tutti vissuti senza l’esperienza tragica della guerra, tanto da far dire spesso che la nostra generazione – europea, perché altrove non è così – è stata più fortunata, anche se di questa fortuna non sembra oggi farne tesoro! Fortunata quanto a durata della vita – ma con la stessa qualità? – fortunata quanto a cultura e sanità, ma con l’idea che è diventato solo pretesa e diritto quello che è anche, e forse soprattutto, dono.

Un dono che purtroppo non tutti possono gustare. Senza dimenticare la tragica fine di mio nonno e di tanti altri lasciati a morire su un campo di guerra, e ancora oggi le orribili situazioni così diffuse nel mondo, nelle quali la vita vale meno che in soldo, e di conseguenza la cura è tutt’altro che un diritto, ricordo che anche nella nostra “civile” realtà italiana non a tutti è garantito quello di cui ho goduto in maniera assolutamente gratuita.

Pochi mesi fa, su Il Sole-24 ore leggevo: “nel 2023 il 7,6% della popolazione italiana ha rinunciato a curarsi, percentuale in crescita rispetto al 2019”. E il presidente dell’Istat Francesco Maria Chelli precisava che “la quota di quanti hanno rinunciato a causa delle lunghe liste di attesa risulta pari al 4,5% (2,8% nel 2019). Le rinunce per motivi economici riguardano il 4,2% della popolazione, quelle per scomodità del servizio l’1,0%”. (2)

Le fredde statistiche fanno emergere una dolorosa povertà umana e la mancanza di un diritto fondamentale della nostra Costituzione.

Ero ammalato e vi siete presi cura di me

Nei giorni di ricovero, osservavo anche i familiari e i parenti che si affrettavano negli orari di visita. La malattia di un congiunto cambia la vita di tutte le persone coinvolte affettivamente, cambia le priorità e i programmi per fare posto agli accompagnamenti, alle visite, alla attesa della dimissione o della guarigione. Vedevo preoccupazioni e espressioni di affetto che forse in altri contesti sarebbero state più misurate, più soffocate dalla quotidianità delle relazioni. Sentivo di lunghi viaggi, di lunghe video-chiamate, di difficoltà a trovare alloggi a prezzi accessibili dove i proprietari giocano sullo stato di necessità, ancor più necessario nelle vicinanze di un grande ospedale. Sperimentavo l’attenzione dei parenti anche per gli altri degenti della stanza, segno di quella solidarietà che è ancora patrimonio diffuso nonostante l’individualismo crescente.

Osservavo anche il via vai di dottori, infermieri e infermiere, operatori socio sanitari, L’esperienza del ricovero, i giorni e le notti in corsia, aprono gli occhi su quel mondo fatto di uomini e donne che si prendono cura delle persone ammalate, per professione certo, ma che alla professionalità spesso uniscono come valore aggiunto l’umanità del rapporto e la delicatezza del rispetto della persona (ero ricoverato in un ospedale pubblico), “tanti gesti di vicinanza che abbiamo visto anche durante la lunga, dolorosa esperienza della pandemia che, ancora oggi, sembra faticare a chiudersi definitivamente. Anche la pandemia, infatti, è stata una dolorosa messa a distanza del malato: l’isolamento, la terapia intensiva, l’impossibilità di andargli vicino… Ci hanno commosso, allora, i gesti di coloro che ci hanno sostituito e ci hanno permesso di colmare la distanza che dovevamo tenere con i nostri cari ammalati. La nostra nostalgia della vicinanza perduta e la commozione di una vicinanza ricuperata grazie ai medici e agli infermieri ci dicono che quello è il mondo che ci piace: quando vediamo gli altri e gli altri vedono noi, quando ci lasciamo commuovere dal dolore dei fratelli”. (3)

La speranza cristiana di una salvezza piena della vita rafforza la speranza umana che accompagna ogni percorso di cura: c’è speranza e fiducia nell’affidamento al medico della propria condizione, e c’è speranza e ricerca nella presa in carico della persona da parte del professionista.

Finiti i tempi della pandemia e del distanziamento, pur con i dispositivi di protezione ancora necessari nei reparti più sensibili, in questi giorni che precedono o celebrano la Giornata mondiale della persona ammalata, quasi ovunque il Vescovo locale torna a celebrare l’Eucaristia in un ospedale o casa di cura, celebrazione che fa diventare quasi luogo liturgico il luogo della sofferenza e il luogo della cura della persona, anche se, mi diceva un compagno di degenza, le camere degli ospedali sono abitate anche da non credenti, verso i quali c’è spesso disinteresse e poche proposte di speranza.

Ho cercato qualche segnale nella vita delle diocesi –circa quaranta scelte a campione – in questa direzione. Spesso quest’anno la celebrazione della giornata ha la sottolineatura del Giubileo della speranza, quasi sempre con il sacramento dell’Unzione degli infermi. Ma ci sono anche altre iniziative. A Bolzano è stato proposto a chi voleva di confezionare un cuore, con modi e materiali scelti liberamente: l’11 febbraio questi segni di affetto anonimo saranno consegnati dai volontari delle associazioni ai degenti delle strutture ospedaliere.

A Vicenza viene proposto un corso di formazione per chi vuole esercitare la diaconia della carità accanto alla persona ammalata: “… è importante mettere il cuore, ma non basta. È necessario acquisire una competenza adeguata…” una competenza soprattutto relazionale e accogliente verso tutti. Dedicato invece ad “Accompagnare il fine-vita e il lutto” è il convegno nella Diocesi di Alba. In alcuni casi i convegni sono organizzati in collaborazione.

A Modena, nell’aula Magna del Policlinico, si svolgerà un convegno dal titolo “La spiritualità come parte della cura”, organizzato dalla Pastorale della salute delle Diocesi di Modena-Nonantola e di Carpi, in collaborazione con Azienda USL e Azienda Ospedaliero-Universitaria di Modena e UniMoRe. Presso l’aula magna dell’Ospedale Maggiore della Carità di Novara, si terrà il convegno “Fisiologia e patologia della speranza nel tempo della malattia”, organizzato dall’Associazione Medici Cattolici Italiani, con l’intervento del vescovo Franco Giulio Brambilla.

La cura della presenza

Quasi una sorpresa, tanto discreta è la loro presenza, nei giorni di degenza ricevevo la visita della volontaria della associazione e del ministro straordinario della Eucaristia, visita che rovescia l’evangelico “ero malato e siete venuti a trovarmi” nell’altrettanto evangelico “eri malato e sono venuto a trovarti”.

Il mio parroco, negli avvisi annuali in questa occasione, diceva sempre: “In questo giorno non manchi una visita alle persone ammalate…”. E dentro di me dicevo, anche con qualche rimprovero a me stesso per quando ero io parroco: non manchi mai l’attenzione alle persone ammalata negli altri 364 giorni dell’anno! Ne ho parlato con Marisa, responsabile della Associazione VAI a Bologna (Volontariato Assistenza Infermi), che porta avanti una presenza discreta ma continuativa. Due giorni dopo Marisa mi ha scritto:

Sono dall’infanzia vicina ai malati, prima come familiare, poi come medico, e infine come volontario. Debbo tutto ai malati: la serenità della mia vita familiare (marito e quattro figli, poi i nipoti), ma soprattutto l’incontro con il Signore, il mio cammino di fede. Partita da molto lontano, ho voluto cercare di aiutare il malato con la mia professione, per accorgermi poi che quello che faceva di più soffrire l’infermo era la solitudine… e a quella ho voluto dedicarmi, abbandonando a 36 anni il mio lavoro di medico ospedaliero.
E la domanda …”perchè?” di fronte ad ogni sofferente mi ha portato a cercare Dio, a sentire indispensabile una dimensione di fede, a cogliere l’importanza della vita sacramentale. Anche per questa mia esperienza personale (riportata, del resto, da tanti santi, ricordo S. Francesco) sono convinta che chiunque, con retta intenzione, si avvicina al malato arriva all’incontro con Dio. Certo il malato non visto come destinatario di un servizio, ma come testimone del limite umano, mistero di grazia da contemplare, nella condivisione e nell’ascolto.
Chi ha scoperto la “perla preziosa” di questo luogo privilegiato di incontro con il Signore, così a portata di tutti, e pur così disatteso e censurato, sente il bisogno di proporlo a quanti incontra, specialmente ai giovani, che sono i più sensibili al suo intrinseco messaggio. Questo è il senso del volontariato che noi facciamo in ospedale, nelle case di riposo, e nelle parrocchie, che vorrebbe dare la possibilità di mettere in atto il mandato evangelico “andate, curate gli infermi”, annunciando il Vangelo non con le parole, ma con l’Amore di chi si curva sul fratello, in cui vede incarnato il Cristo in croce.

Queste presenze nelle corsie dei luoghi di cura sono una ventata di speranza che rende concreto il titolo della Giornata Mondiale della persona ammalata, vissuta quest’anno nella prospettiva dell’Anno Santo: “«La speranza non delude» (Rm 5,5) e ci rende forti nella tribolazione”. I tre aspetti che Papa Francesco sottolinea come caratteristica della presenza di Dio vicino a chi soffre – l’incontro, il dono e la condivisione – possono e devono diventare la caratteristica delle comunità di fratelli e sorelle che credono in Colui che ha sofferto fino alla morte per farsi prossimo alla nostra umanità.

Riferite a queste tre caratteristiche, ho trovato significative alcune affermazioni che leggo sul settimanale diocesano Vita Trentina del 9 febbraio 2025, dove alcune associazioni declinano la “condivisione”… “per camminare fianco a fianco, per non essere più soli. Il nostro motto è #nonpiùinvisibili”. (AISF-Ass. Italiana Sindrome Fibromialgica), “per non far sentire diverso un bambino dai suoi coetanei, per creare una rete di solidarietà e supporto” (ADG-Ass. Diabete Giovanile), “per incontrare l’altro, per comprendere la vita come dono” (AET-Ass. Emofilia in Trentino), “per promuover e sostenere la sintonia tra il lavoro del mondo sanitario e quello dell’associazionismo, con la sua conoscenza diretta dei bisogni dei malati e delle famiglie” (Ass. Parkinson in Trentino).

Ancora Marisa mi scrive:

Questo annuncio è rivolto a tutti, e può essere portato da tutti, perché l’amore è un linguaggio universale: spesso purtroppo le nostre comunità si limitano ad un discorso squisitamente religioso, trascurando la potenzialità di apertura e di approfondimento di una fede vera che deriva dal mettere al centro della loro vita il malato… perché, come diceva S. Giovanni Paolo II, «la vitalità di una comunità cristiana si misura dal grado di attenzione per i suoi malati».

Renato Zanon