GIOVEDI’ SANTO: celebriamo la cena del Signore

La sua e la nostra Pasqua

Giovedì santo. La tavola del Signore

di Goffredo Boselli

La “tavola del Signore” (1Cor 10,21) è l’immagine che apre la celebrazione della Pasqua, a dire che nella comunità dei discepoli di Cristo la tavola rimane, ancora oggi, il luogo dell’ascolto della parola del Signore, il luogo della sua presenza, il luogo della sua memoria.

È attorno alla tavola del Signore che accadono gli avvenimenti narrati dalle tre letture bibliche della Missa in Coena Domini. Tavola del Signore è la tavola della cena pasquale degli ebrei nella notte dell’uscita dall’Egitto evocata nel racconto dell’Esodo (12,1-8.11-14). Anch’essa un’ultima cena, l’ultima cena da schiavi. La tavola del Signore è sempre la tavola della libertà e della liberazione. Tavola del Signore è la tavola eucaristica della piccola comunità cristiana di Corinto. È la tavola alla quale si celebra quella che l’apostolo Paolo chiama “la cena del Signore” (1Cor 11,23-32). È la tavola attorno alla quale non si può “umiliare chi non ha niente”, e alla quale non si può partecipare impunemente senza “discernere il corpo del Signore”. La cena del Signore è il luogo della comunità di vita.

Tavola del Signore è la tavola dell’ultima cena di Gesù con i suoi discepoli la sera prima di morire. È la tavola del pane spezzato e del calice donato, la tavola dove il Maestro e Signore lava i piedi. È la tavola del mandatum novum, del comandamento nuovo dell’amore. Ma è anche la tavola alla quale Gesù siede con l’amico che lo ha tradito, con colui che negherà di conoscerlo, con i discepoli che lo lasceranno solo davanti alla morte. La tavola del Signore è sempre anche tavola di peccatori perdonati.

Una tavola tanto desiderata e tanto sofferta

“Ho tanto desiderato mangiare questa Pasqua con voi” (Lc 22,14), confida Gesù ai discepoli, eppure quell’ultima cena è stata il momento della crisi più grande nella vicenda di Gesù con i suoi; quell’ultima tavola è stata il luogo della rivelazione della disgregazione imminente della comunità. A quella tavola è seduto anche colui che lo tradisce, e Gesù lo esprime con la figura della prossimità delle mani: “Ecco, la mano di colui che mi tradisce è con me sulla tavola” (Lc 22,21). È la mano di Giuda che poche ore prima lo aveva venduto ai capi dei sacerdoti, perché aveva capito, forse prima degli altri, che Gesù non aveva più nessun futuro. Gesù ha deluso le sue speranze e lui lo tradisce. Giuda, con la non verità delle sue parole, fa della tavola dell’ultima cena il luogo della menzogna, “sono forse io, Rabbi, (a tradirti)” (Mt 26,25). Sì, l’ultima cena avviene nel clima, anzi avviene nel momento stesso della più radicale forma di contraddizione dell’amore: il tradimento dell’amico.

A quella tavola è seduto Pietro, la roccia, che da lì a poco avrebbe rinnegato di conoscerlo. Pietro, con la promessa infedele, “io darò la mia vita per te”, fa della tavola dell’ultima cena il luogo della pretesa fedeltà, tanto ostentata quanto pusillanime; lo rinnegherà infatti non di fronte all’autorità che ha potere di vita o di morte, ma di fronte a una giovane serva della quale non regge neppure una generica accusa. A quella tavola sono seduti anche gli altri discepoli dei quali Marco non esita a dire che qualche ora dopo “tutti lo abbandonarono e fuggirono “ (Mc 14,50). L’ora della croce è l’ora dell’antisequela.

Nel momento stesso in cui quella comunità stava andando a pezzi, Gesù ha assunto il tradimento di chi gli era amico, ha accettato il rinnegamento di colui al quale ha dato più fiducia e l’abbandono di coloro che aveva personalmente scelto e chiamato per nome alla sua sequela. L’ultima cena rappresenta così per Gesù la situazione nella quale vivere per sé ciò che ha predicato agli altri: “Amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano” (Mt 5,44); non chiede di perdonare un’astratta categoria di “nemici” e tantomeno i nemici di altri ma i “vostri nemici”, ossia i nemici concreti, le persone che vi fanno del male. Non si deve in alcun modo cercare di attenuare la forza dello scandalo che sta all’origine della chiesa, cioè che i discepoli seduti con Gesù a tavola alla vigilia della sua passione hanno fatto del male a lui, il loro fratello. Il peccato è sempre solo questo: fare del male al fratello! Gesù qui sta perdonando i suoi amici tramutati in suoi nemici.

A Gesù non è stata risparmiata neppure la dolorosa esperienza – che anche altri maestri nella storia hanno condiviso con lui – di vedere che i suoi discepoli diventano suoi avversari, e cosa ancor più lacerante, che gli amici si trasformano in nemici. Non per cattiveria o malvagità ma per paura, codardia, pusillanimità.

Nella sequenza del vangelo secondo Matteo, a Giuda che gli chiede se è forse lui il traditore, Gesù risponde: “Tu l’hai detto”; ai discepoli annuncia: “Voi tutti vi scandalizzerete di me in questa notte”; a Pietro che dice: “Ma io no”, risponde: “Tu mi rinnegherai tre volte” (cf. Mt 26,25.31-34). Gesù conosce bene quello che i discepoli avrebbe fatto di lì a poco, e tuttavia rimette loro la sua vita nei segni del suo corpo e del suo sangue. Preso il pane, lo spezza e dice: “Questo è il mio corpo dato per voi”, poi prende il calice dicendo: “Questa calice è la nuova alleanza nel mio sangue che è versato per voi” (Lc 22,19-20). Ben sapendo quello che stavano per fare, consegna la sua vita nelle mani di coloro che, direttamente o indirettamente, lo stavano consegnando nelle mani di chi voleva la sua morte.

La tavola della contesa: “Chi è il più grande?”

Come non ricordare poi che per Luca, la tavola dell’ultima cena è anche un luogo di contesa (philonikía), dove sorge un contenzioso tra i discepoli: “Nacque tra loro anche una discussione: chi di loro fosse da considerare più grande. Egli disse: ‘I re delle nazioni le governano, e coloro che hanno potere su di esse sono chiamati benefattori. Voi però non fate così; ma chi tra voi è più grande diventi come il più giovane, e chi governa come colui che serve. Infatti chi è più grande, chi sta a tavola o chi serve? Non è forse colui che sta a tavola? Eppure io sto in mezzo a voi come colui che serve’” (Lc 22,24-27).

Gesù ha appena annunciato la sua morte e, come servo sofferente, sulla croce sta prendendo l’ultimo posto: ed ecco che i discepoli si contendono il primo posto. C’è qualcosa di scandaloso, di ripugnante al cuore dell’ultima cena. Nella risposta di Gesù – “Chi è più grande: chi sta a tavola o chi serve?” –, il riferimento alla tavola è di grande importanza: lui sta a quella tavola come colui che serve gli altri. “Io sto in mezzo a voi come chi serve”, è la più bella definizione che Gesù dà di sé, vera e propria cristologia eucaristica. Luca pone dunque al cuore dell’eucaristia la parola di Gesù sul servizio, e per gli esegeti questa scelta di Luca, diversa dagli altri sinottici, risponde a un’esigenza ecclesiale. Le assemblee eucaristiche della comunità matteana erano forse già diventate luogo di rivalità, di ricerca dei primi posti, di precedenze, di onori e riconoscimenti per affermare la propria superiorità sugli altri (cf. At 6,1; 1Cor 11,17-19; Gc 2,2-4). In ogni caso, Luca intenzionalmente pone una disputa dettata da rivalità come contemporanea all’istituzione dell’eucaristia, a ricordare che il peccato di orgoglio e di arroganza per la ricerca dei primi posti, per l’ambizione di emergere sugli altri, non è per nulla estraneo alla liturgia fin dalle sue origini. Per questo, la tavola eucaristica è sempre esposta al pericolo di essere il luogo dove primeggiare e non servire, dove ergersi a padrone degli altri e non a chinarsi per diventare loro servo.

La tavola del Signore è sempre tavola di peccatori

Dunque, anche la tavola dell’ultima cena è una tavola alla quale Gesù si siede con dei peccatori che sono i suoi discepoli, che lui personalmente aveva scelto e chiamato, così che questa ultima tavola mostra ancor di più la verità delle sue parole: “Non sono venuto a chiamare i giusti ma i peccatori” (Mc 2,17 e par.). Alla violenza del tradimento, alla brutalità del rinnegamento e alla viltà della fuga, in definitiva al peccato di quell’ora, Gesù si sottomette stando seduto a una tavola con coloro che l’avrebbero tradito, rinnegato e abbandonato, cioè nella forma passiva dello spezzare il pane e condividere il calice di vino, dunque rinunciando al potere, alla violenza, alla vendetta. Risponde invece perdonando l’imperdonabile, offre la riconciliazione donando “il calice del mio sangue versato per voi e per tutti in remissione dei peccati” come narra la forma liturgica dell’istituzione.

Anche alla vigilia della sua morte, come ha sempre fatto nella sua vita pubblica, seduto a tavola insieme a dei peccatori, Gesù rimodella la situazione, la evangelizza per così dire, e fa dei suoi discepoli i suoi ospiti, trasformando i destinatari del pane e del vino, da traditori a ospiti, nei quali anche i futuri tradimenti sono già superati dall’accoglienza e dal dono di Gesù. La tavola dell’ultima cena è tavola della misericordia, perché trasforma l’annuncio della morte in un banchetto di festa e di libertà; banchetto che celebra, nel linguaggio giovanneo, la gloria di chi ama fino alla fine (cf. Gv 13,1). Non per nulla, è Giovanni qui a chiamare – unica volta nei vangeli e proprio nell’ultima cena – i discepoli “commensali” (Gv 13,28), quasi a dire che solo da quell’ultima cena in poi diventano commensali del Signore.

La tavola del Risorto o dell’amore più forte

Non ci deve dunque sorprendere che il giorno stesso della sua resurrezione Gesù sieda di nuovo a tavola con i suoi discepoli. Tutti si erano scandalizzati della sua morte in croce e, in questo modo erano diventati complici – materialmente no, ma moralmente sì – della sua condanna a morte, e così si trovano ora dalla parte dei colpevoli, diventando marginali alla realtà del regno di Dio. In Luca e in Giovanni, i pasti pasquali con il Risorto a Emmaus, nella camera alta a Gerusalemme, sulla riva del mare di Tiberiade, non sono solo memoria della quotidiana commensalità conviviale vissuta con Gesù nel tempo trascorso con lui, ma sono anche restaurazione di una comunione infranta dall’infedeltà umana dei discepoli, così che la tavola del Risorto è luogo di perdono e riconciliazione, perché, come ha scritto Rowan Williams, “accoglierlo o essere da lui accolti a un pasto dall’altro versante del calvario costituisce la garanzia suprema della misericordia e dell’accettazione dell’amore indistruttibile”1. Questo il senso del racconto con il quale si chiude il quarto vangelo: “Quand’ebbero mangiato, Gesù disse a Simon Pietro: Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di questi?” (Gv 21,15). La domanda dell’amore avviene nel contesto conviviale della tavola pasquale.

Sedendosi alle tante e diverse tavole che i vangeli raccontano – le tavole della convivialità con gli amici, le tavole della fraternità con i suoi discepoli, le tavole della condivisione con la folle affamate che andavano a lui, le tavole dello scandalo, quelle vietate perché con i peccatori, pubblicani, prostitute e, in fine, le tavole dell’amore indistruttibile con i testimoni della sua risurrezione –, sedendosi a tutte queste tavole, Gesù ha scritto un vero e proprio vangelo della tavola.

La tavola del Signore è la sua tavola non la nostra

Dall’ultima cena fino a oggi, quella alla quale Gesù si siede con i suoi discepoli è la “tavola del Signore”. Questo significa anzitutto che non è la nostra tavola ma quella del Kýrios: è lui che invita, non noi, che invece siamo sui ospiti. Tutti siamo ospiti a questa tavola, nessuno di noi è padrone. Come nei vangeli, anche nell’oggi della chiesa, è il Signore che invita e dunque decide con chi sedersi a tavola; nessuno è escluso di coloro che lui ha chiamato alla fede e alla vita nuova nel battesimo. Non siamo dunque noi e i nostri criteri e giudizi umani a stabilire chi è degno e chi non lo è di sedersi alla tavola del Signore. L’invito alla sua tavola, il Signore ogni volta lo rivolge nel segreto della coscienza del cristiano; lì e non altrove risuonano le parole della Sapienza: “Venite, mangiate il mio pane, bevete il mio vino che ho preparato per voi” (Pr 9,5). Alla tavola del Signore si sono sempre seduti anche i peccatori e le peccatrici, perché l’eucaristia è il “pane dei vivi” e non “il pane dei puri”.

San Nicola di Jitcha – l’ultimo santo canonizzato dalla chiesa ortodossa serba il 23 maggio 2013 – vescovo e grande teologo, soprannominato il Crisostomo serbo, nel suo testo più noto, Preghiere sul lago, ha scritto:

“Tenetevi lontani soprattutto a due peccati: dalla paura del peccatore e dal disprezzo davanti a un peccatore. Altrimenti, le vostre fronde appassiranno come quelle del salice, il vostro profumo diventerà inodore, la vostra serenità si trasformerà in orgoglio, e i peccatori vi chiameranno con il loro stesso nome.

Giusti, il peccato è un malattia e disprezzare un peccatore è disprezzare un malato. Colui che guarisce i malati accresce la sua salute, ma lo spregio dei malati corrode la salute di chi è sano.

Il peccato è seduto alla tavola di coloro che hanno paura di sedersi a una tavola di peccatori. Il peccato entra nella casa di chi ha paura di entrare nella casa di un peccatore. Chi cammina per strada evitando con cura i peccatori rientra a casa sua carico di una moltitudine di peccati”2.


1[1] R. Williams, Resurrezione. Interpretare l’evangelo pasquale, Qiqajon, Magnano 2004, p. 161.

2[1] Nicolas Velimirovitch (Saint Nicolas de Jitcha), Prières sur le lac, L’Age d’homme, Lausanne 2004, pp. 161-162.