I cristiani davanti all’eclisse dell’Aldilà

Qualche settimana fa è scomparso Paolo Ricca, pastore valdese, figura di primo piano nel mondo teologico ed ecumenico. Gli rendiamo omaggio ripubblicando questa riflessione del 2020 sulla scomparsa dell’escatologia. 

È una caratteristica vistosa del nostro tempo e, più in generale, della modernità, soprattutto europea, la progressiva cancellazione, nella coscienza comune, dell’Aldilà, a beneficio dell’Aldiqua. Vi ha indubbiamente contribuito la rivoluzione copernicana che, spodestando la terra dal centro dell’universo, ha reso obsoleto tutto l’immaginario religioso tradizionale sull’Aldilà (quello, ad esempio, della Commedia di Dante), a cominciare dalle categorie di “alto”, dove stava il “cielo” come dimora di Dio, invocato quindi come “Altissimo” («Padre nostro che sei nei cieli»!), e di “basso”, dove era stato sistemato l’“inferno”, che adesso non si sa più dove collocare (se non sulla terra, l’unico “rifugio” che gli resta!). Questa svolta culturale epocale è stata descritta poeticamente da Bertolt Brecht, che fa dire a Galileo quanto segue: «Presto l’umanità avrà le idee chiare sul luogo in cui vive, sul corpo celeste dove dimora. Non le basta più quello che sta scritto nei libri antichi. Infatti, dove per mille anni ha dominato la fede, ora domina il dubbio. Tutto il mondo dice: D’accordo, sta scritto nei libri, ma adesso lasciate un po’ che vediamo noi stessi. […] E il gran risucchio d’aria che si è levato da tutto questo, spazza via perfino le vesti trapunte d’oro dei principi e dei prelati, mettendo in mostra gambe grasse e gambe magre, gambe uguali alle nostre, insomma. 

È risultato che i cieli sono vuoti. A questa constatazione è scoppiata una gran risata d’allegria. […] Ma l’universo, nel giro di una notte, ha 
perduto il suo centro, e la mattina dopo ne aveva un’infinità. Da un momento all’altro, guarda quanto posto c’è» (Bertolt Brecht, Vita di Galileo, Torino, Einaudi, 2014, pp. 13 e 15). 

Ma se l’universo ha perso il suo centro, è logico che sia diventato difficile immaginare un Aldilà. Non si sa da dove partire. Non si sa dove comincia il “cielo” (se pure comincia da qualche parte), né dove finisce (se pure finisce da qualche parte). Non si sa neppure bene che cosa sia. Sicuramente era molto più facile pensare l’Aldilà nella visione tolemaica dell’universo, con la terra al centro, il cielo “sopra” e gli inferi “sotto” (lo dice la parola: infernus = “ciò che si trova in basso”). Dovremmo allora abbandonare qualsiasi nozione spaziale dell’Aldilà? Se così fosse, con che cosa sostituirla? Oppure dovremmo abituarci all’idea dell’impossibilità di immaginarlo? Ma si può davvero pensare ciò che non si può in alcun modo immaginare? Il fatto evidente dell’eclisse dell’Aldilà sarebbe allora dovuto, in fin dei conti, alla difficoltà, per non dire all’impossibilità, di immaginarlo? 

Questa difficoltà, o impossibilità, è reale, però non significa che l’Aldilà non esista. 

Crediamo, ad esempio, che Dio esiste, pur non potendolo, anzi non dovendolo, immaginare, perché nessuna immagine che possiamo farci di lui corrisponde alla sua realtà. Lo stesso Gesù, «che è l’immagine di Dio» (2Cor 4,4) – l’unica a cui possiamo ricorrere – riflettendoci bene, non è immaginabile neppure lui; eppure crediamo che esista. Come l’esistenza di Dio e quella di Gesù non dipendono dalla possibilità di immaginarli, lo stesso discorso vale per l’Aldilà: non possiamo immaginarlo, ma questo non significa che non esista. 

Certo, non ci sono prove che esista (come del resto non ci sono prove del contrario). 

Nessuno può dimostrare che c’è una vita dopo questa vita. Sembra anzi che tutto finisca con la morte e si attui così, per ciascun vivente a cominciare dalla creatura umana, l’antica sentenza pronunciata da Dio sul primo uomo da lui creato; «Sei polvere, e in polvere ritornerai» (Gen 3,19). Molte altre parole bibliche le fanno eco: la nostra vita «passa presto e noi ce ne voliamo via» (Sal 90,10). «Ricordati che la mia vita è un soffio. […] Chi scende nel soggiorno dei morti, non ne risalirà» (Gb 7,7.9). «Tutto è venuto dalla polvere e tutto ritorna alla polvere» (Qo 3,20). Qui manca del tutto l’idea di una qualche forma di sopravvivenza. La persona defunta appartiene definitivamente al passato – un passato irrimediabilmente senza futuro. Altre persone nasceranno e vivranno, ma la persona defunta non è necessario che riviva: ha avuto la sua chance, la sua occasione unica che è questa vita, l’ha vissuta più o meno bene, ora tocca ad altri. In questo quadro, il destino umano non è diverso da quello di un fiore, che nasce, cresce, dispiega la sua bellezza, emana il suo profumo, poi lentamente appassisce e alla fine muore: non rivivrà, altri fiori spunteranno, altrettanto belli, ma quello appassito ha concluso la sua breve storia e ritorna anche lui alla terra dalla quale è nato. Così potrebbe essere, e così sembra che sia. Ma la prospettiva cristiana è diversa. 

Perché la fede cristiana afferma, contro tutte le apparenze, che c’è una vita dopo la morte, che c’è un futuro per chi, essendo morto, dovrebbe appartenere a un passato senza futuro? Fondamentalmente per un unico motivo: la risurrezione di Gesù. Perché? Perché è la risurrezione di Gesù che ha rivelato che il corpo umano (il suo, che era come il nostro) ha un futuro, non è destinato a essere distrutto, ma, al contrario, a essere restituito alla vita in forma nuova. E il corpo di Gesù che è risuscitato (ecco il senso profondo della tomba vuota – vuota appunto perché le donne e i discepoli non trovano più il corpo. Tutta la risurrezione ruota intorno al corpo che, risuscitando, non appartiene più solo all’Aldiqua, ma anche all’Aldilà; si può dire che la risurrezione introduce il corpo, in una nuova veste (se così si può dire), nell’Aldilà, è l’Aldilà del corpo – quel corpo dell’uomo e della donna che Dio aveva modellato con le sue stesse mani con grande amore e sapienza (Gen 2,7.21-22) e che ora Dio risuscita dando loro un nuovo modo di essere. 

Se Gesù non fosse risorto non sapremmo nulla dell’Aldilà, non sapremmo neppure se esiste oppure no, anzi dovremmo piuttosto supporre che non esiste e che la morte ha l’ultima parola sulla vita dell’uomo e di ogni vivente, e ha il potere di spegnerla per sempre. Se Gesù non fosse risorto, potremmo solo dubitare dell’Aldilà, e dovremmo arrenderci all’evidenza che, alla fine, la morte è più forte della vita, e che ogni vita altro non è che una apparizione fugace e caduca presa nella doppia morsa del Nulla da cui misteriosamente emerge e del Nulla in cui inesorabilmente precipita. Ma Gesù, risuscitando dai morti, «ha distrutto la morte e ha messo in luce la vita e l’immortalità» (2Tm 1,10). 

Ma Gesù non è risuscitato da sé, è Dio che lo ha risuscitato. Dietro la risurrezione di Gesù c’è Dio, il quale, risuscitando Gesù, ha posto un limite alla morte, anzi ha posto se stesso come limite alla morte. «La morte è il nostro limite, ma Dio è il limite della morte» (Karl Barth). Si può dunque dire che possiamo parlare non a vanvera dell’Aldilà perché c’è stata la risurrezione di Gesù, e c’è stata la risurrezione di Gesù perché c’è Dio che l’ha voluta e compiuta. Questo significa, in sostanza, che Dio è l’Aldilà, e che non c’è altro Aldilà che Dio, il quale però non è confinato nell’Aldilà, è altrettanto Dio nell’Aldiqua quanto nell’Aldilà, li comprende e trascende entrambi. Ecco perché Dietrich Bonhoeffer ha parlato, giustamente, di «trascendenza nell’Aldiqua». 

Se dunque la risurrezione di Gesù compiuta da Dio è, secondo la fede cristiana, la porta stretta (cioè unica) aperta sull’Aldilà, e se la risurrezione cristianamente intesa è, in sostanza, risurrezione del corpo, e quindi significa che, dopo la morte, c’è un futuro non solo per l’anima, ma anche per il corpo – questa è la novità cristiana rispetto, ad esempio, al pensiero del grande Platone – allora dobbiamo chiederci con quale corpo Gesù risorto è entrato nell’Aldilà come «primogenito dai morti» (Col 1,18) e «primogenito fra molti fratelli» (Rm 8,29). La risposta del racconto evangelico è molto chiara e consiste in due affermazioni. 

La prima: invitando Tommaso a “mettere le mani” nella ferita aperta nel suo costato, Gesù ha voluto affermare in maniera inequivocabile l’assoluta continuità tra il Gesù “storico”, il Maestro di Nazareth, il Crocifisso del Golgota, e il Gesù risorto che ora sta davanti a lui e accetta che questo discepolo che non si accontentava del sentito dire, possa verificare di persona, toccandolo letteralmente con le mani, che Gesù risorto da un lato non è un fantasma, o una visione, o una illusione, me è proprio lui, quello che percorreva le strade della Palestina predicando il regno di Dio vicino, proprio lui, finito su una croce, ora oggettivamente presente e non soggettivamente sognato o immaginato; e dall’altro non è un altro Gesù o un suo sosia: il Risorto e il Crocifisso sono la stessa persona, non due persone diverse, il Risorto è il Crocifisso, il Crocifisso è il Risorto. Nella risurrezione, non c’è sostituzione, ma continuità della persona. 

La seconda affermazione è che la risurrezione non è il ripristino, o riproduzione, o ripetizione del vecchio corpo, ma è quel corpo trasformato, trasfigurato e in questo senso nuovo, non però corpo di un’altra persona, ma della stessa. L’apostolo Paolo lo chiama «corpo spirituale» (1Cor 15,44), dove la parola «corpo» è altrettanto importante quanto l’aggettivo «spirituale», che lo qualifica in modo inconfondibile. Non si tratta infatti di un corpo apparente, ma di un vero corpo, che può essere «toccato» o «trattenuto», come risulta dalle parole rivolte da Gesù a Maria Maddalena (Gv 20,17): «Non mi toccare» o «Non mi trattenere» (Gv 20,17) – un’anima o uno spirito non si possono toccare o trattenere! Ma si tratta anche di un corpo spirituale, diverso da quello fisico che conosciamo, tanto che né Maria Maddalena, né i discepoli di Emmaus, vedendo Gesù, sono stati in grado di riconoscerlo: evidentemente il ricordo che ne avevano non collimava con ciò che i loro occhi stavano vedendo. Quindi c’è vera continuità tra il corpo terreno e quello «celeste» di Gesù (1Cor 15,49), ma c’è anche vera novità. 

La risurrezione, insomma, non è sopravvivenza o ricupero di cose vecchie, ma la loro trasfigurazione e in questo senso inizio di cose nuove. La risurrezione di Gesù può dunque essere considerata come l’atto inaugurale di una “nuova Genesi”, e la “risurrezione dei corpi” che confessiamo nel Credo detto Apostolico, significa che l’Aldilà è anche l’Aldilà dei corpi, e che questi corpi non sono una copia, sia pur bella, della vecchia creazione, ma la sua trasformazione, e in questo senso una nuova creazione. 

Paolo Ricca