I salmi: un corpo che prega

Pregare con i Salmi significa ricondurre a unità sensi e membra, chiamati a creare la preghiera, letteralmente darle voce e forma. E il senso di reintegrazione si allarga ad altre alterità, finché la preghiera diventa corale, di tutti i riuniti insieme, della Chiesa.

Il linguaggio orante del corpo 

Se vi è come una presenza onnipervasiva nel Salterio, è senz’altro quella del nostro corpo umano, come potremmo facilmente verificare in tutti i Salmi – o quasi. Per pregare – e già qui c’è un insegnamento per noi – l’uomo biblico non può fare a meno di esporre e di dire il proprio corpo fisico, che appunto in quanto tale è sempre simultaneamente simbolico e spirituale, che si dilata alle proporzioni del più grande corpo comunitario dell’assemblea dei credenti. Come se proprio qui, nel corpo, fosse in gioco il segreto di tutta la nostra preghiera. 

Ha ragione Paul Beauchamp: i Salmi sono corpo in preghiera (1). In effetti, “il fragile strumento della preghiera, l’arpa più sensibile, il più esile ostacolo alla malvagità umana, tale è il corpo. Sembra che per il Salmista tutto si giochi là, nel corpo. Non che sia indifferente all’anima, ma al contrario, perché l’anima non si esprime e non traspare se non nel corpo. Il Salterio è la preghiera del corpo”. (2) Sicché proprio nel corpo suo e altrui non riduttivamente inteso, per il salmista sembra giocarsi proprio tutto. 

Più precisamente ancora, va detto che quello del corpo in preghiera non è un ruolo esteriore, puramente strumentale, nel senso talora un po’ equivoco della molto ripetuta espressione oggi in voga: “pregare con il corpo”. In effetti il suo ruolo in relazione alla preghiera è piuttosto quello di protagonista che non di semplice coadiuvante, addirittura di offrire un vero e proprio luogo e magistero permanente di preghiera. E questo vale nel senso di una continuità tra Antico e Nuovo Testamento. Infatti, non ci dice forse Paolo che il nostro corpo è “tempio santo di Dio, dimora dello Spirito Santo” (1Cor 6,12-20; cf. 3,16-17)? Ma se è tempio, allora è luogo da abitare e ascoltare in stato di religioso ascolto. E dal momento che nel tempio ci parla Dio, allora dal corpo dobbiamo aspettarci come un oracolo per noi, di lì ci arriverà una rivelazione del suo nome. 

Proviamo dunque – attraverso la parola degli oranti del Salterio – a prestare ascolto agli oracoli che ci arrivano dal corpo. 

Il Salterio è la preghiera del corpo, anche sotto il profilo antropologico, e cioè anche in quanto esso è il luogo dell’anima, per cui la preghiera attraversa tutto ciò che si produce nel corpo, nei suoi organi che – menzionati singolarmente – dicono sempre un coinvolgimento globale del nostro statuto personale. Lo capiamo quando ad esempio il salmista gioiosamente esclama: 

Tutte le mie ossa diranno: chi è come te, Signore?” (Sal 35,10) 

In questa espressione la lode è pronunciata dalle ossa del salmista, attribuita a quelle ossa che nell’antropologia biblica sono la sede e il simbolo della forza che tiene in piedi l’uomo, consentendogli una postura eretta e ferma, pronta a sostenere ogni iniziativa. 

Così il corpo prega con tutti i registri comunicativi di cui è capace, in tutta la sua potenza e fragilità espressiva. 

Anche a questo proposito conviene almeno una volta misurarci su di una lettura trasversale del Salterio, cercandone tutti i linguaggi abitualmente ricorrenti, per scoprire che si tratta per lo più di molto elementari e quotidiani linguaggi corporei, ordinati a dar forma alla nostra relazione con Dio. 

Il Salterio sta lì a dirci che dal corpo nessuna preghiera potrà mai prescindere. Così, anche la più attenta e concentrata meditazione della parola di Dio ha bisogno di esprimersi e di esteriorizzarsi assumendo – per esempio – la forma di un mormorio, di un sussurro meditativo (Sal 1,2; 102,8). 

Questo che in realtà si propone come un movimento fisico, un borbottio continuo ad alta o almeno a mezza voce, diventerà in latino la meditatio, che nella nostra tradizione più recente ha finito per prendere una piega sempre più disincarnata dal corpo, di volta in volta molto intellettualistica, psicologistica, autoinvestigativa. Ma questa dimensione caduta in oblio andrà invece recuperata. E nella pratica nostra odierna della preghiera dovremo pur riscoprire la fisicità magisteriale della nostra voce, che – recitando i Salmi come si deve – avrà almeno la virtù di non distrarci e di tenerci attenti a quanto diciamo. 

Da molti Salmi si leva il grido del lamento, una supplica, e perfino l’urlo che vuole catturare l’attenzione di Dio: 

Sii attento al mio lamento, Signore!” (Sal 17,1; 61,2; cf. 77,2). 

E – sempre strettamente connesso tanto al corpo quanto alla preghiera – in non pochi Salmi ascoltiamo pure il pianto, l’ancora più potente linguaggio delle lacrime (42,4; 119,136, su cui ritorneremo più avanti). Non manca nemmeno il silenzio di un corpo tutto assorto e rapito dalla presenza di Dio legata al tempio: 

Per te il silenzio è lode, o Dio, in Sion!” (Sal 65,2). 

Oppure il silenzio di una tacita riflessione (37,7; 38,14-15; 39,2ss.), anch’essa mai disincarnata dal corpo, tanto da accompagnarla in ogni sua possibile posizione perfino in stato di riposo: 

nel silenzio, sul vostro letto, riflettete nei vostri cuori” (Sal 4,5). 

E potremmo indugiare a lungo su tutti i registri linguistici in cui il corpo si relaziona con Dio. 

Ma la corporeità in preghiera implica pure che nella preghiera l’uomo entra anche con tutte le proprie emozioni, con ogni suo affetto possibile. Così la stessa collera e l’ira sono fattori sempre di grande peso e rilievo, non solo nelle relazioni interpersonali più dirette, ma proprio nella stessa preghiera, dal momento che il linguaggio dello sdegno, con cui il corpo si infiamma per un’ingiustizia o oppressione, lo spinge volentieri verso l’alto, lo fa gridare a Dio (73; 119,53; cf. 37,1.7-8). 

Un ulteriore registro espressivo – tra i più vitali e decisivi in assoluto – presente in tutto il Salterio, coinvolto direttamente dovunque ci sia di mezzo la voce, è quello del respiro. Non a caso l’ultimo versetto dell’intero Salterio esclama: 

ogni respiro – ogni vivente, dia lode al Signore!” (Sal 150,6). 

Qui la stessa vitalissima attività di inspirare e di espirare viene promossa al rango della lode a Dio la più diretta e ordinaria possibile. 

Tornando agli organi del corpo mediante i quali l’orante traduce il vissuto del proprio dialogo con Dio, troviamo la bocca. Così in un bel passaggio del Sal 81 leggiamo: 

Io sono il Signore tuo Dio che ti ho fatto salire dal paese d’Egitto – apri la tua bocca, la voglio riempire!” (Sal81,11). 

Israele deve aprire la bocca che il Signore riempirà non solo e non più, a questo punto, con la manna nel deserto, ma con la sua parola profetica, che corrisponde a quello che è il desiderio, l’anelito di vita dell’uomo stesso. 

Analogamente: 

apro anelante la mia bocca, desidero i tuoi comandamenti (Sal 119,131). 

I comandamenti divini si ricevono non solo con gli orecchi, ma addirittura con la bocca, si devono mangiare, triturare, per metabolizzare e assumere la legge del Signore, farla entrare in noi “nel mio profondo” (40,9). Proprio come fu per Mosè (Es 35,11; 35,20; Nm 12,6-8; Dt 34,10), la divina parola dalla bocca di Dio passa nella nostra, per entrarci nelle viscere e divenire nostra, mia propria volontà (Is 59,21). Non a caso tutti i giorni la recita liturgica dei Salmi avvia proprio così la nostra lode mattutina: 

Signore, apri le mie labbra e la mia bocca proclamerà la tua lode!” (Sal 51,17). 

La bocca è soglia relazionale decisiva nel rapporto tra uomo e Dio, tra uomo e uomo, tra uomo e mondo, fra interno ed esterno, e come tutti gli altri più rilevanti organi del corpo umano, nel linguaggio biblico diventa facilmente il simbolo della totalità dell’uomo, una parte per il tutto (anch’essa una sineddoche). Con la bocca si parla – dimensione comunicativa, relazionale –; con la bocca si mangia – dimensione nutritiva, vitale –; con la bocca si bacia – dimensione affettiva, erotica. C’è davvero tutto questo in quell’espressione: 

Signore, apri le mie labbra e io canterò la tua lode!”. 

Ecco allora perché aprire la bocca per cantare i Salmi – come dice la tradizione ebraica – diventa davvero cosa terribile, temibile – appunto perché significa innescare un movimento di conversione, come Gregorio Magno aveva ben capito affermando: “La voce della salmodia apre nel nostro cuore una via al Signore” (3). 

Il corpo, questo paradosso 

La pratica della salmodia arriva a plasmare il nostro corpo, guidando i nostri passi, sguardi e gesti, nel senso tracciato da “il cantore per eccellenza dei Salmi” – e cioè Gesù stesso (4). 

L’aspetto formidabile sperimentato pregando i Salmi è che si tratta di qualcosa che – pur non confinandosi entro una singola anima invisibile – presenta comunque limiti molto netti relativi di volta in volta ad un corpo preciso e concreto senziente, che ha dietro una sua storia, un vissuto esistenziale per l’appunto di un corpo dotato di una memoria, con tanto di cicatrici e ferite antiche, nonché di un futuro dai contorni imprecisi, ma in cui certamente si intravede la decadenza di una perdita di forze, nell’insinuarsi della debolezza cui si sente esposto. Un corpo che ha un presente entro cui si pone come paradosso. 

Sì, il corpo è certamente un paradosso, molto ben verificabile nei Salmi – oltre che nella nostra esperienza – per il fatto stesso di porsi come luogo di originaria relazione e apertura all’altro, ma al tempo stesso – soprattutto qualora si senta minacciato – sempre esposto al rischio di involversi, autocentrandosi al punto di chiudersi in se stesso. Il corpo è questo frammento di spazio-tempo entro cui siamo confinati, in cui Dio ci colloca come creature parziali, limitate, tutti “un piccolo frammento della Tua creazione”, come direbbe Agostino: aliqua portio creaturae tuae. Ma, in ogni caso, pur con tutti i suoi limiti, il mio corpo è anche l’unica possibilità di aprirmi agli altri. Può imprigionarmi, ma è anche apertura all’infinito, all’altro, all’oltre, all’invisibile. 

Spesse volte, nel Salterio risuona la voce del corpo disperato e torturato dell’uomo, senza più via d’uscita. Così nel Sal88 – il Salmo più oscuro dell’intera raccolta – parla un uomo che denuncia la propria disperata situazione di malattia fin dall’infanzia (v. 16), che lo espone ad un continuo faccia a faccia con la morte, facendolo sentire come qualcuno che in pratica è già un morto (vv. 4-7.11-13.16ss.). Ciononostante, con incredibile forza e segreta speranza, lo udiamo per ben tre volte innalzare e far ripartire sempre di nuovo la sua angosciata invocazione a Dio (vv. 2.10b.14). Dall’interno di una situazione disperata, in cui il suo corpo da sempre malato lo rinchiude senza sbocchi, egli però continua a invocarlo senza sosta, e questo suo grido disperato a Dio è la sua forma estrema di speranza, con cui evita di ricadere su se stesso (5). 

Per inevitabili che siano i momenti in cui, sentendosi ormai prossimo alla morte, il corpo malato e sofferente parrebbe ripiegarsi e rinchiudersi su se stesso, esso diventa talvolta anche portatore di utopia, apertura all’alterità, progettualità. Non più quindi un qui e ora irrimediabile e già fagocitato dalla morte, ma un nuovo baricentro, una leva dinamica del mondo, a partire da cui io ricomincio a sognare, camminare, danzare, parlare, desiderare, amare. Questa dimensione di apertura all’alterità fa sì che il corpo sia davvero il luogo privilegiato della preghiera, sicché il corpo orante nei Salmi si apre con naturalezza dal livello del corpo singolo a quello comunitario. 

Ecco perché quando preghiamo i Salmi insieme con gli altri all’interno di una normale recita comunitaria, si tratta sempre di formare un corpo unico. In un coro monastico o in qualunque celebrazione comunitaria di Liturgia delle Ore, non c’è di mezzo soltanto la preghiera di individui. Significativamente la parola dei Salmi che recitiamo, non è mai pronunciata come mia, tua, o sua, ma è Parola che riceviamo dalla Scrittura e dalla tradizione della Chiesa, e che diventa il linguaggio comune di un unico grande corpo. 

Se il corpo è sempre corpo che parla – anche non verbalmente, oltre che attraverso le parole dell’orante – e se è la sua stessa parola intrinseca a definire il corpo umano, allora nella liturgia i Salmi diventano la Parola di un corpo che non è la mera somma dei nostri corpi individuali, ma è il corpo di Cristo stesso; e il linguaggio dei Salmi è quello con cui Dio vuole riempire le nostre bocche (Sal 80,11). C’è dunque anche questa dimensione comunitaria del corpo ecclesiale, in nome della quale i Salmi sono un momento e un bene irrinunciabile della preghiera della Chiesa, ecclesiologicamente parlando un aspetto costitutivo della sua stessa indefettibilità. Non a caso, per quanto ne abbia percepito spesso i risvolti problematici, la Chiesa non ha mai rinunciato e non ha mai abbandonato la preghiera dei Salmi. 

L’apertura all’alterità include un’ulteriore dimensione. Ci dice che non è solo il corpo comunitario a pregare, ma a un certo punto nei Salmi l’orante si sente partecipe del tutto cosmico, dell’intero corpo della creazione, e prega insieme a tutte le altre creature: 

Frema il mare e quanto racchiude, il mondo e i suoi abitanti. I fiumi battano le mani, esultino insieme le montagne davanti al Signore che viene, che viene a giudicare la terra!” (Sal 98,7-9). 

E prega accordando il proprio corpo con i tempi della natura. Il Salmo 5 è preghiera del mattino, in cui l’orante dichiara di prepararsi per il Signore (Sal 5,4), cioè di predisporre tutto se stesso per la giornata che inizia e che è occasione di incontro con il Signore. 

Il Salterio, pedagogia del corpo 

Il percorso spirituale che il Salterio nella sua interezza, il Salterio come libro nella sua unità compositiva dal primo all’ultimo Salmo, ci fa fare si delinea come una vera e propria pedagogia del corpo. E questo lo si coglie già dalla prima pagina, quando entriamo nel libro attraverso il suo portale d’ingresso costituito dai Sal 1 e 2, ma in particolare con il Sal1, in cui si delinea la figura dell’orante come colui che ascolta e medita la Torah, la Legge del Signore, con quell’atto prettamente fisico di mormorio della Parola a cui abbiamo già fatto cenno: 

Beato l’uomo che… nella legge del Signore trova la sua gioia, la sua legge medita giorno e notte” (Sal 1,3). 

Attenzione: sua legge – ma sua di chi? Il parallelismo sinonimico fra i due stichi ci fa capire che qui ci si riferisce alla legge del Signore. Grammaticalmente parlando, però, possiamo anche intendere che, nella pratica della meditazione, la legge “del Signore” diventi “di colui che la medita”. La volontà del Signore si travasa nell’uomo che, meditandola, se ne appropria e se ne imbeve (Sal 40; 119). Si apre in tal modo un itinerario che ci conduce fino al culmine del Salterio, quando addirittura sarà il respiro stesso del corpo a diventare lode per il Signore (150, 6). 

Dalla meditazione che, bisbigliando, si applica alla Torah, si passa a una preghiera coincidente con il fiato stesso del respiro che entra e esce dai polmoni, dalla bocca, dalle narici. E qui troviamo la radice della preghiera del cuore tanto cara alla tradizione dell’oriente cristiano. Il Salterio, insomma, non è solo libro di preghiere, ma scuola di preghiera. Che educa il corpo del singolo così come il corpo comunitario, ecclesiale, all’arte della preghiera. 

Luciano Manicardi