II domenica di Pasqua “in albis”. Commento al Vangelo

Tommaso l’incredulo

La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore.

Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati». Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Didimo, non era con loro quando venne Gesù. […]I discepoli erano chiusi in casa per paura dei giudei. Hanno tradito, sono scappati, hanno ancora paura: che cosa di meno affidabile di quel gruppetto allo sbando? E tuttavia Gesù viene. Una comunità chiusa dove non si sta bene, porte e finestre sbarrate, dove manca l’aria e ci si sente allo stretto. E tuttavia Gesù viene. Non al di sopra, non ai margini, ma, dice il Vangelo, in mezzo a loro. E dice: Pace a voi.

Non si tratta di un augurio o di una promessa, ma di una affermazione: la pace è, la pace qui. Pace che scende dentro di voi, che proviene da Dio. È pace sulle vostre paure, sui vostri sensi di colpa, sui sogni non raggiunti, sulle insoddisfazioni che scolorano i giorni. Qualcuno però va e viene da quella stanza, entra ed esce: i due di Emmaus, Tommaso il coraggioso. Gesù e Tommaso, loro due cercano. Si cercano. Otto giorni dopo, erano ancora lì tutti insieme. Gesù ritorna, nel più profondo rispetto: invece di rimproverarli, si mette a disposizione delle loro mani.

Tommaso non si era accontentato delle parole degli altri dieci; non di un racconto aveva bisogno, ma di un incontro con il suo Signore. Che viene una prima volta ma poi ritorna, che invece di imporsi, si propone; invece di ritrarsi, si espone alle mani di Tommaso: Metti qui il tuo dito; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco. La risurrezione non ha richiuso i fori dei chiodi, non ha rimarginato le labbra delle ferite. Perché la morte di croce non è un semplice incidente da superare: quelle ferite sono la gloria di Dio, il punto più alto dell’amore, e allora resteranno eternamente aperte. Su quella carne l’amore ha scritto il suo racconto con l’alfabeto delle ferite, indelebili ormai come l’amore stesso.

Il Vangelo non dice che Tommaso abbia davvero toccato, messo il dito nel foro. A lui è bastato quel Gesù che si propone, ancora una volta, un’ennesima volta, con questa umiltà, con questa fiducia, con questa libertà, che non si stanca di venire incontro, che non molla i suoi, neppure se loro l’hanno abbandonato. È il suo stile, è Lui, non ti puoi sbagliare: mio Signore e mio Dio. Perché mi hai veduto, hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto! Una beatitudine per noi che non vediamo, che cerchiamo a tentoni e facciamo fatica, che finalmente sento mia. Grande educatore, Gesù: forma i suoi alla libertà, a essere liberi dai segni esteriori, alla ricerca personale più che alla docilità. Beati i credenti! La fede è il rischio di essere felici. Una vita non certo più facile, ma più piena e vibrante. Ferita sì, ma luminosa. Così termina il Vangelo, così inizia il nostro discepolato: col rischio di essere felici, portando le nostre piaghe di luce.

Letture: Atti 2,42–47; Salmo 117; 1 Pietro 1,3–9; Giovanni 20,19–31

Ermes Ronchi
Avvenire

Se “il giorno dopo il sabato” (Gv 20,1) si era aperto con la visita al sepolcro di Maria di Magdala e con la corsa al sepolcro di due discepoli che trovarono la tomba vuota, ora è il Risorto che visita il luogo dove si trovano i discepoli. Andati per trovare Gesù dove pensavano che fosse, Gesù li raggiunge dove loro stessi sono. Questa la scena che ci viene presentata dal vangelo della II domenica di Pasqua. Il farsi presente del Risorto ai suoi discepoli la sera del giorno pasquale provoca un cambiamento nei discepoli stessi: un gruppo di uomini impaurito e ripiegato su di sé, che giace in un luogo chiuso simbolicamente assimilabile a un sepolcro, viene fatto risorgere a comunità capace di testimonianza e di annuncio. Il passaggio dalla paura alla gioia dice che incontrare il Risorto è fare esperienza di resurrezione nella propria vita.

Il gesto di Gesù che alita sui discepoli è gesto di creazione (cf. Gen 2,7; Sap 15,11), di passaggio dalla morte alla vita (cf. 1Re 7,21; Ez 37,9), dalle tenebre alla luce (cf. Tb 11,11). Incontrare il Risorto significa anche divenire testimoni della resurrezione: il dono dello Spirito con il potere di rimettere i peccati rende i discepoli partecipi di quella vittoria della vita sulla morte che è la resurrezione. La remissione dei peccati è frutto e testimonianza della resurrezione, per questo la chiesa testimonia la resurrezione di Gesù annunciando e attuando tra gli uomini la remissione dei peccati. La remissione dei peccati appare come il segno distintivo della chiesa che testimonia il Risorto, tanto che essa deve trasparire e manifestarsi nell’eucaristia (cf. Mt 26,28: “Questo è il mio sangue versato in remissione dei peccati”), nell’esercizio dell’autorità (cf. Mt 16,19: l’autorità di sciogliere e legare), nella missione (cf. Gv 20,23).

Nel nostro testo la remissione dei peccati non è un potere giuridico, ma un carisma, un dono, tanto che la sua condizione è la ricezione dello Spirito, il dono dei doni. Il corpo trafitto e glorioso di Gesù narra sinteticamente l’intera sua vita come vita di amore, è corpo narrante che manifesta e parla di ciò che ha vissuto: l’agape. Il corpo risorto di Gesù parla di un amore vissuto fino alla fine e di uno Spirito che ha accompagnato tale amore fino a rendere le ferite, le ingiurie e la morte subìta, occasione ulteriore di dono, di amore. È l’amore all’origine della resurrezione. Il corpo risorto di Gesù è corpo narrante vedendo il quale si vede altro e oltre: si vede l’amore del Padre, si vede l’amore con cui il Figlio ha vissuto il tradimento di Giuda e il rinnegamento di Pietro così come le violenze dei soldati e le ostilità delle autorità religiose. Il corpo risorto di Gesù è il corpo che narra la capacità di perdonare, ovvero, di fare del male subìto un dono. Ed è corpo che chiede alla chiesa di divenire essa stessa corpo narrante, corpo che narra la misericordia di Dio e la sua capacità di perdono e di remissione dei peccati.

Dei discepoli si dice che stanno rintanati al chiuso in un luogo con le porte sbarrate, a motivo della paura: paura e chiusura sono le cifre del loro smarrimento. Dove dunque, e come, scoprono la presenza di Gesù? Essenzialmente nel loro essere ancora insieme, nel loro restare uniti, per quanto non siano insieme per evangelizzare, per fare la missione, per testimoniare, ma forse solo per paura e perché non sanno altrimenti dove andare. Il Risorto si manifesta nel loro essere insieme, nel loro dare continuità a quell’insieme che Gesù aveva voluto e creato. Non si manifesta a Tommaso che si trova da un’altra parte, magari perché non aveva paura come loro. No, il testo sottolinea che Gesù si fa presente a quel gruppo di paurosi, non a uno solo. Gesù, specifica due volte Giovanni, si fa presente in mezzo, in mezzo a loro. C’è uno spazio “in mezzo” dove c’è una comunità.

La vita comunitaria stessa è dunque luogo di esperienza pasquale. Tommaso, assente durante la prima manifestazione di Cristo (Gv 20,19-23) e presente alla seconda (Gv 20,26-28), non ha bisogno di stendere la mano e metterla nel costato di Gesù per vincere la sua incredulità (Gv 20,24-25): il fatto stesso di essere insieme agli altri nella comunità cambia la sua situazione. La comunità è luogo di esperienza della resurrezione nel passaggio che induce a compiere dall’“io” al “noi”, nel movimento di morte a se stessi per vivere con e per gli altri che essa suscita, nell’evento per cui le negatività e i peccati di uno sono conosciuti, accolti e non giudicati dagli altri. Tommaso, che non ha creduto all’annuncio fatto dai suoi fratelli, è accolto – da incredulo – nel gruppo dei discepoli riuniti otto giorni dopo.

Tommaso ha come soprannome “Didimo” (Gv 20,24), che significa “gemello”, “doppio”. È un discepolo di Gesù, ma sulla fede fa prevalere le sue pretese; sulla fiducia ai fratelli fa prevalere la durezza e la sufficienza; sull’oggettività e continuità di presenza in mezzo agli altri, fa prevalere un atteggiamento singolare e incostante. Dunque è figura di doppiezza. In lui ogni credente può riconoscere le proprie ambiguità e doppiezze nella vita di fede, tutte forme con cui ci difendiamo dal movimento di affidamento e ci isoliamo. Ma la fede cristiana non è vivibile individualmente, come avventura isolata. In mezzo ai fratelli, Tommaso farà la sua confessione di fede: infatti, dove due o tre sono riuniti nel suo nome, il Signore è in mezzo a loro (cf. Mt 18,20).

Se la comunità è luogo sacramentale di presenza del Risorto, altrettanto vale per la Scrittura. Il credente incontra il corpo del Risorto nel corpo comunitario e nel corpo scritturistico (e, ovviamente, nel corpo eucaristico): il libro del vangelo, definito da Giovanni come “segni scritti” (Gv 20,30-31) capaci di suscitare la fede che conduce alla salvezza, cioè alla comunione di vita con il Signore, è sacramento della potenza di Dio (“il vangelo è potenza di Dio per chiunque crede”: Rm 1,16). Potenza mostrata nella resurrezione da morte di Gesù e che si manifesta sempre di nuovo nella remissione dei peccati nel nome di Gesù.

Comunità e Scrittura sono anche gli ambiti che oggettivano l’azione dello Spirito mentre ne sono vivificate. Comunità e Scrittura interagiscono con lo Spirito creando una pericoresi, una circolazione che nella liturgia si esplica pienamente: in essa lo Spirito vivifica il gruppo umano rendendolo corpo di Cristo e resuscita le pagine antiche della Scritture rendendole parola vivente e attuale di Dio per il suo popolo.

La manifestazione del Risorto suscita la gioia dei discepoli (cf. Gv 20,21) realizzando la promessa di Gesù: “Voi ora siete nella tristezza, ma io vi vedrò di nuovo e il vostro cuore gioirà e nessuno vi potrà togliere la vostra gioia” (Gv 16,22-23). La gioia pasquale, la gioia che niente e nessuno può togliere, non elimina le ferite e le sofferenze subìte ma, innestandole per fede in Cristo, può farne – evangelicamente – qualcosa: non un motivo di rivalsa o di vendetta, ma di perdono e di amore, e così realizza la “giustizia superiore” (Mt 5,20).

La fede nel Risorto nasce in Tommaso passando attraverso la conoscenza delle ferite che Cristo porta nel suo corpo. E attraverso la presa di coscienza del fatto che egli stesso non è estraneo a tale opera di trafittura: Gesù gli chiede di prendere contatto con le sue ferite! La fede pasquale nei cristiani non può nascere se non passando attraverso la presa di coscienza delle ferite che si provocano nel corpo di Cristo che è la chiesa, che si infliggono alle sue membra, i fratelli e le sorelle nella fede. Solo questa fede pasquale è autentica perché accompagnata dal pentimento e dalla conversione del credente stesso.

Il Risorto che, fattosi presente in mezzo ai suoi “otto giorni dopo” (Gv 20,26), accondiscende alle pretese che Tommaso aveva avanzato come condizioni del suo credere, provoca una reazione di Tommaso radicalmente diversa da quella di alcuni giorni prima. Perché? Perché Tommaso si scopre accolto anche nella sua pretesa, nella sua sfiducia. Tommaso si scopre amato nella sua incredulità e perdonato. E questo vince le sue resistenze. Gesù non si impegna in rimproveri, non mette in atto strategie di convinzione, ma accondiscende a ciò che Tommaso aveva preteso mostrando di conoscere in profondità il cuore di questo discepolo. Tanto che Tommaso perviene subito alla confessione di fede in Gesù quale Signore e Dio. Tommaso crede all’amore e se ne lascia vincere. E rinuncia a se stesso, accettando anche di fare la figura di chi smentisce se stesso. Tommaso accetta se stesso accettando di essere amato.

Ecco allora che Gesù proclama la beatitudine di coloro che crederanno senza avere visto. Ed ecco anche le ultime parole del testo evangelico sul vangelo scritto: vangelo che contiene la narrazione scritta dell’amore di Dio e della prassi di amore di Gesù di Nazaret. Beato dunque chi crederà all’amore attraverso la mediazione del vangelo, così come attraverso la mediazione di una comunità cristiana. La comunità riunita otto giorni dopo è rinvio alla comunità cristiana che nel tempo della chiesa si raduna settimanalmente per l’eucaristia domenicale: ormai i luoghi che narrano sacramentalmente l’amore di Dio sono la comunità cristiana, l’eucaristia, il vangelo. Senza vedere, senza prove tangibili, ma nella certezza della fede, questi tre luoghi sono tre testimonianze dell’amore che ci dicono che noi siamo amati e che possiamo imparare ad amare, possiamo diventare persone capaci di amare.

Luciano Manicardi
Monastero di Bose