Sono convinto che per la Chiesa ci sia un futuro, ma questa prospettiva passa attraverso la creazione delle «piccole comunità». La scelta dei vescovi di molte diocesi pare però andare dalla parte opposta, accorpando un numero sempre maggiore di parrocchie in Unità Pastorali che, nel corso degli anni, prendono la dimensione di piccole diocesi. Le prospettive poi sono poco rassicuranti, se guardiamo l’elenco dei preti diocesani, la loro età e, soprattutto, al fatto che il clero giovane non ritenga tutto questo un problema.
Un bravo prete mi ha espresso in modo schietto la sua posizione di fronte a questi orientamenti, dopo che gli avevano proposto di guidare una Unità Pastorale da ventimila persone: «Io non voglio morire!».
La strada delle «piccole comunità»
Da parte mia, trovo incomprensibile il fatto che ci siano presbiteri che, invece, vivano che totale fiducia queste nuove impostazioni, trovandone persino stimoli di novità!
Vorrei motivare meglio l’assunto iniziale: il futuro è nelle comunità, ma (attenzione!) nelle «piccole comunità». Considero piccola comunità una parrocchia che vada dalle 1.000 alle 3.000 anime.
Il motivo principale di questa scelta deriva dal fatto che il cuore delle comunità sono le relazioni: relazioni di vicinanza, d’amore. Oltre certi numeri, ci troveremmo nell’anonimato, dove, a fare comunità ci sarebbero solamente… gli operatori pastorali.
Sono arrivato a queste conclusioni dopo aver analizzato gli organismi con i quali sono organizzate le parrocchie attuali, inglobate in una Unità Pastorale. Partiamo dall’alto: si comincia con il Consiglio pastorale unitario; poi, per salvare le tradizioni, troviamo i Consigli pastorali delle singole parrocchie; infine, ci sono i gruppi ministeriali, nuova creatura da una quindicina d’anni a questa parte.
Ognuno di questi organismi ha la sua organizzazione: presidenze, segreterie, ordini del giorno, riunioni e riunioni… Spesso ci sono sovrapposizioni, incomprensioni, difficoltà organizzative con relative crisi di identità.
Un simile impianto elefantiaco non può sopravvivere ed è urgente cercare prospettive diverse.
I pastori, di fronte alle critiche per la mancata ricerca di nuove impostazioni pastorali, rispondono che il cambiamento è già in atto e si chiama Gruppo Ministeriale.
La malapianta del clericalismo
È su questo punto che vorrei dedicare una particolare attenzione.
Sono prete da 44 anni e ho lavorato in sei parrocchie, toccando con mano il lento ma continuo crescere di un fenomeno che vorrei sintetizzare con il termine «clericalismo laicale».
Il clericalismo lo conosciamo tutti: è quando il prete si sente al centro dell’universo. Si appella al fatto di essere prete per sottolineare la propria differenza ontologica e per ribadire fortemente il proprio ruolo. Ciò che stupisce è che sono i preti più giovani a ragionare in questa maniera.
Cosa è successo in questi ultimi decenni, mano mano che il numero dei preti si riduceva? Che il laicato ha preso – finalmente! – il proprio posto da protagonista e questa è stata un’autentica rivoluzione post-conciliare. Con un prete moderatore, i laici sono riusciti a dare il meglio del proprio carisma. È stata la stagione degli anni Settanta-Novanta, quando abbiamo vissuto i momenti più belli della Chiesa-comunità in cui tutti si sentivano protagonisti.
Il problema è subentrato quando è cominciata a mancare quella presenza paterna, responsabile, di sintesi, autorevole, riconosciuta da tutti ed equilibratrice. Mancando i preti, si sono fatte avanti figure di laici che mostravano la peggiore tra le caratteristiche di chi intende mettersi al servizio della comunità: il protagonismo! La voglia di emergere, di essere riconosciuti, di apparire, di essere visibili, di autocandidarsi in modo più o meno silenzioso, di utilizzare i temi evangelici per ricevere l’applauso…! E non sempre questi laici erano i più capaci.
Presenze sovente dannose
Cosa succede in un contesto dove i laici-protagonisti hanno il sopravvento data la mancanza di una presenza equilibratrice? Capita che i laici migliori, quelli che hanno nel loro cuore le motivazioni più limpide e le capacità umane e spirituali più adatte (mancando però quasi sempre della spinta benefica di un «orgoglio buono», perché il mostrarsi e il candidarsi erano considerati peccati di superbia), si facciano da parte, lasciando il terreno libero per altre presenze, sovente dannose per la comunità.
Quante volte abbiamo sperimentato queste presenze molto attive nelle parrocchie, astute nel dire «tocca sempre a noi!»; che si lamentano perché non ci sono ricambi, quando sono proprio loro ad oscurare chi si propone per un ricambio; che si dicono sempre «stanchi» ma che si sentono offesi quando qualcuno propone la loro pensione; che esprimono giudizi pesanti sulle altre realtà parrocchiali, non direttamente, ma attraverso i loro accoliti; che pretendono di far parte di tutti i consigli parrocchiali… Quante volte un povero parroco è stato costretto a notti insonni proprio a causa di questi laici-protagonisti!
Si dovrebbe allargare questo ragionamento anche su altre realtà presenti nel territorio: dallo sport alle associazioni, dalla politica all’ambito del volontariato.
C’è bisogno di purificare le motivazioni di tutti coloro che ricoprono un compito all’interno delle comunità.
Tornando alle parrocchie, dobbiamo riconoscere la necessità di una figura che si assuma il compito della sintesi: un padre (o anche una madre) che facciano da moderatori. Laici veramente corresponsabili che affianchino il presbitero, capaci di valorizzare tutti i carismi presenti nella comunità.
Gigi Maistrello