Lorenzo Parelli, 18 anni, morto durante l’alternanza scuola-lavoro. Matteo Riganti, 18 anni, morto per una fragilità acuita dalla pressione scolastica. Sua madre mi ha scritto la settimana scorsa: «Che cosa fare di pratico, perché, DOMANI, la prossima ora, gli educatori si rendano conto che sono chiamati a fare qualcosa di straordinario per ingaggiare questi ragazzi? Perché è tanto diffuso questo sentimento di «lost in space» dei tanti Mattei che, forzatamente frequentano (ma sempre di più abbandonano) la scuola e avrebbero bisogno di almeno un prof per essere “ripresi”… e invece soffocano tra verifiche e programmi?». Dopo questi due recentissimi lutti mi chiedo: serve ancora la scuola? Potrebbe sembrare una domanda retorica, ma non lo è quando qualcosa che l’uomo crea per umanizzare la vita e renderla più vivibile (è lo scopo della cultura: dalla ruota alla letteratura, dal fuoco alla democrazia) ottiene il contrario: dis-umanizza. Se accade le possibilità sono due: o quella cosa non serve più o non serve così com’è. In un momento in cui ai primi sintomi siamo obbligati a fare un tampone, vorrei avessimo la stessa prontezza per curare sintomi evidenti da anni negli attori della scuola: studenti, insegnanti, genitori.
1. Studenti. Nel libro A mente accesa, Daniela Lucangeli, luminare in neuroscienze e apprendimento, racconta di aver partecipato nel 2017 (prima della pandemia) a una commissione ministeriale sul benessere/malessere a scuola: «Individuata nella prima adolescenza (14-16 anni) la fascia per i questionari, la commissione ha indagato il limite oltre il quale il malessere generico si trasforma in burnout o in ansia e stress. I nostri studenti sperimentano molto più malessere che benessere nella loro esperienza scolastica: il 27% ha dichiarato di stare «così così», il 73% di star male e, all’interno di questo gruppo, il 60% (più della metà della popolazione scolastica) sta male stabilmente, non ha ricordo di essere mai stato bene a scuola. Perché? Le cause riguardano fattori cognitivi (eccesso di carico prestazionale), emotivi (soprattutto ansia e noia), sociali (sfiducia nei modelli di riferimento)». 2. Docenti. In Italia è la categoria più soggetta a burnout (dal verbo inglese bruciarsi): sfinimento psico-fisico da lavoro. Quando ho iniziato a insegnare, nel 2000, era già un’emergenza: da anni il professor D’Oria nei suoi studi segnala il malessere dei docenti e l’assenza di azioni. Già in una ricerca decennale del 2001 il 73% degli insegnanti risultava infatti affetto da patologie psichiatriche, esito di burnout. Le cause erano, per il 26% di loro, la relazione con gli studenti, per il 20% con i genitori, per il 20% con i colleghi, per il 2% con il dirigente, per il rimanente 32% la somma di queste relazioni (più esposte le docenti, l’80% del corpo docente, soprattutto over 50). La scuola così com’è è per noi insegnanti una sfinente guerra di relazioni (motivo per cui il ritornello caustico del lavoro solo mattutino e dei mesi di vacanza è fuori luogo). 3. Genitori. Chiedono alla scuola di abbassare le pretese, impegnare i figli ma senza gravare sulla loro già faticosa gestione. Come è accaduto? Nel recente Il danno scolastico – La scuola progressista come macchina di disuguaglianza, il sociologo Luca Ricolfi e la docente/scrittrice Paola Mastrocola, con dati ed esperienza alla mano, rispondono: «La scuola senza qualità è una macchina che genera disuguaglianza. Solo un cieco non vede come sono andate le cose: è la cultura progressista che ha inteso la democratizzazione non come mettere la cultura alta a disposizione di tutti, ma come “diritto al successo formativo”; e che ha demonizzato gli insegnanti che si opponevano all’abbassamento dell’asticella, o erano contrari a rilasciare falsi attestati. Ricevere un’ottima istruzione era l’unica carta in mano ai figli dei ceti bassi per competere con i figli di quelli alti». Infatti i percorsi tecnico/professionali diventano spesso recinti di povertà.
Questo malessere generale riguarda la scuola pre-pandemia, l’emergenza sanitaria ha solo denudato ferite incancrenite che la politica degli ultimi due decenni non ha affrontato e quindi aggravato. Una scuola che invece di accendere le persone le brucia va riformata. Come? La risposta non è «Chiudiamo le scuole!», titolo dell’omonimo pamphlet dello scrittore Giovanni Papini che già nel 1918 denunciava provocatoriamente una certa organizzazione scolastica: «La civiltà non è venuta fuori dalle scuole che intristiscono gli animi invece di sollevarli e le scoperte decisive della scienza non son nate dall’insegnamento pubblico ma dalla ricerca solitaria disinteressata e magari pazzesca di uomini che spesso non erano stati a scuola o non v’insegnavano». Però dobbiamo chiudere «questo modo» di fare scuola, una catena di montaggio spesso priva di cura delle persone, come spiegava già nel 1970 il filosofo Ivan Illich nel famoso «Descolarizzare la società», in cui, seppur con eccessi ideologici ma con dovizia di proposte, aveva previsto gli esiti di una scuola che: scambia l’apprendimento con la prestazione/carriera, non offre quindi il sapere come aiuto per aprirsi all’esperienza della vita, ma addestra lo studente a performance e diplomi, rendendolo consumatore di programmi (basti pensare all’esame di maturità farsa – promozione del 99,8% degli studenti – eppure così ansiogeno per ragazzi che magari non sanno cosa fare dopo quell’esame); non permette agli insegnanti di essere maestri di umanità, conoscenza, desiderio, cioè guide al pensiero critico, collaborativo e innovativo, ma spesso li rende funzionari burocratici, precari, ripetitori di programmi, giudici di performance e competizioni (basti vedere come negli ultimi anni sono state introdotte, senza mezzi adeguati: prove Invalsi, alternanza scuola-lavoro e, in pandemia, proprio l’educazione civica! A proposito consiglio Maddalena Colombo, Gli insegnanti in Italia). A questo va aggiunto che la gestione attuale della scuola retribuisce (poco) coloro che lavorano bene allo stesso modo di chi lavora male; non aiuta le famiglie in difficoltà, sperperando i quasi 8mila euro che costa alle nostre tasse ogni anno uno studente (si legga Lettera ai Politici sulla Libertà di Scuola di Anna Monia Alfieri e Dario Antiseri); consolida o amplia il divario sociale, come dimostra Federico Fubini in La maestra e la camorrista. Perché in Italia resti quel che nasci (basti il dato della nostra dispersione scolastica al 13%: più di mezzo milione di ragazzi ha lasciato la scuola nel 2020).
Perché non reagiamo? Perché l’azione politica dei cittadini è di fatto impossibile: c’è un vuoto di rappresentatività politico/sindacale di cui lo spettacolo (di potere) a cui abbiamo assistito per l’elezione del Presidente della Repubblica è la tragica rappresentazione. La filosofa Hannah Arendt, studiando i totalitarismi, per scongiurare nuove forme di tacita, inconsapevole o forzata collaborazione alla violenza da parte della maggioranza, elaborò l’idea di «disobbedienza civile», cioè quando un certo numero di cittadini «si convince che i canali consueti del cambiamento non funzionano più e non viene più dato ascolto alle loro rimostranze». Questi cittadini, seppur in minoranza, sono chiamati a organizzarsi per risvegliare «maggioranze che si ritengono inerti fino a farne mutare l’opinione». Per questo non bastano sindacati/occupazioni/scioperi, normalizzati e resi sterili dal sistema, ma serve un serio lavoro di persone di professioni diverse, ma unite dall’obiettivo di riformare la scuola e capaci di risvegliare l’opinione pubblica, per far pressione su una politica che si ricorda della scuola in zona elezioni con quattro frasi paternalistiche su giovani e futuro e sentimentali fervorini sui docenti eroi della nazione. Magari la scuola diventasse argomento su cui giocarsi il consenso elettorale! Propongo alcuni esempi di «disobbedienza civile». Studenti: aprire profili social per segnalare, magari con un minuto di silenzio in piedi in classe o in presidenza, una lezione malfatta, un’aula non riscaldata… ma anche una lezione bellissima e una scuola arredata con le piante. Docenti: impegnare le ore di auto-formazione e di educazione civica per approfondire tra noi, e poi con i ragazzi, i testi segnalati o altri, per poi produrre insieme lettere, volantini e video sia di proposta sia di protesta su fatti precisi, da far girare a scuola e da indirizzare a Presidente della Repubblica, Premier, ministro dell’istruzione, sindaci, assessori scuola e mezzi di comunicazione. Genitori: in alleanza con i presidi e docenti che vorranno, creare un comitato che segnali agli altri genitori della scuola e poi su giornali, radio, tv, rete e aule giudiziarie, sia le situazioni illegali (dall’edilizia scolastica al becero sistema di gestione delle supplenze e del sostegno) sia quelle virtuose (in una scuola hanno deciso di disegnare un sorriso su tutte le mascherine). Qualcosa può cambiare solo con una disobbedienza civile ragionata e continua, altrimenti molti continueranno a «bruciarsi» e pochi «fortunati» a salvarsi, contro l’art.3 della Costituzione: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». Proprio la scuola, per una gestione politica inadeguata, oggi diventa spesso ostacolo al pieno sviluppo e partecipazione? Serve una class action culturale e legale. Per fortuna ci sono molte situazioni virtuose e da prendere a modello, ma raccontarle e farle diventare «sistema», e non eccezioni eroiche o sentimentali, è compito nostro: #lascuolabrucia o #lascuolaccende?
PS. Perché non cominciare dall’imminente festival della canzone, divenuto vetrina di lotte sociali e culturali? Magari tra i monologhi potrebbe esserci quello di una professoressa precaria, di uno studente che ancora a fine gennaio non sa (tutto tace al ministero) come sarà la maturità di quest’anno, di una mamma con un figlio bisognoso del sostegno o di una che il figlio l’ha perso…
Alessandro D’Avenia