In quel tempo, Gesù passando vide un uomo cieco dalla nascita e i suoi discepoli lo interrogarono: «Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?». Rispose Gesù: «Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è perché in lui siano manifestate le opere di Dio. Bisogna che noi compiamo le opere di colui che mi ha mandato finché è giorno; poi viene la notte, quando nessuno può agire. Finché io sono nel mondo, sono la luce del mondo». […]
Il protagonista del racconto è l’ultimo della città, un mendicante cieco dalla nascita, che non ha mai visto il sole né il viso di sua madre. Così povero che non ha nulla, possiede solo se stesso. E Gesù si ferma per lui, senza che gli abbia chiesto nulla. Fa un po’ di fango con polvere e saliva, come creta di una minima creazione nuova, e lo stende su quelle palpebre che coprono il buio. In questo racconto di polvere, saliva, luce, dita, Gesù è Dio che si contamina con l’uomo, ed è anche l’uomo che si contagia di cielo; abbiamo uno sguardo meticcio, con una parte terrena e una parte celeste. Ogni bambino che nasce “viene alla luce” (partorire è un “dare alla luce”), ognuno è una mescolanza di terra e di cielo, di polvere e di luce divina. «Noi tutti nasciamo a metà e tutta la vita ci serve per nascere del tutto» (M. Zambrano). La nostra vita è un albeggiare continuo. Dio albeggia in noi.
Gesù è il custode delle nostre albe, il custode della pienezza della vita e seguirlo è rinascere; aver fede è acquisire «una visione nuova delle cose» (G. Vannucci). Il cieco è dato alla luce, nasce di nuovo con i suoi occhi nuovi, raccontati dal filo rosso di una domanda ripetuta sette volte: come ti si sono aperti gli occhi? Tutti vogliono sapere “come”, impadronirsi del segreto di occhi invasi dalla luce, tutti con occhi non nati ancora. La domanda incalzante (come si aprono gli occhi?) indica un desiderio di più luce che abita tutti; desiderio vitale, ma che non matura, un germoglio subito soffocato dalla polvere sterile della ideologia dell’istituzione. L’uomo nato cieco passa da miracolato a imputato. Ai farisei non interessa la persona, ma il caso da manuale; non interessa la vita ritornata a splendere in quegli occhi, ma la “sana” dottrina. E avviano un processo per eresia, perché è stato guarito di sabato e di sabato non si può, è peccato…
Ma che religione è questa che non guarda al bene dell’uomo, ma solo a se stessa e alle sue regole? Per difendere la dottrina negano l’evidenza, per difendere la legge negano la vita. Sanno tutto delle regole morali e sono analfabeti dell’uomo. Anziché godere della luce, preferirebbero che tornasse cieco, così avrebbero ragione loro e non Gesù. Dicono: Dio vuole che di sabato i ciechi restino ciechi! Niente miracoli il sabato! Gloria di Dio sono i precetti osservati. Mettono Dio contro l’uomo, ed è il peggio che possa capitare alla nostra fede. E invece no, gloria di Dio è un mendicante che si alza, un uomo che torna a vita piena, «un uomo finalmente promosso a uomo» (P. Mazzolari). E il suo sguardo luminoso, che passa e illumina, dà gioia a Dio più di tutti i comandamenti osservati!
Letture: 1 Samuele 16,1.4.6-7.10-13; Salmo 22; Efesini 5,8-14; Giovanni 9,1-41
Ermes Ronchi
Avvenire
Al centro della quarta domenica di Quaresima vi è il tema dell’illuminazione, espresso nel vangelo dal racconto della guarigione dell’uomo cieco dalla nascita. Racconto che diviene pedagogia verso la fede cristologica. Il testo presenta le differenti reazioni alla guarigione da parte delle diverse persone che compaiono nella narrazione. E sempre sorge la domanda: queste persone sanno vedere? L’evento della guarigione di un uomo cieco dalla nascita cosa cambia nel loro modo di vedere la realtà? Il ritrovamento della vista da parte di quell’uomo diviene giudizio sulla capacità di vedere degli altri protagonisti del racconto. E di noi lettori insieme con loro.
Il testo è suddiviso in sei scene in cui sempre si intrecciano tre motivi: il fatto (un uomo cieco dalla nascita è stato guarito da Gesù con alcuni gesti terapeutici); il processo (un interrogatorio a cui i farisei sottopongono l’uomo guarito dalla cecità per appurare ciò che è avvenuto); il giudizio (il medesimo fatto conduce a due giudizi differenti: quello dei farisei che condannano il cieco espellendolo dalla sinagoga e giudicando Gesù come peccatore; quello di Gesù che si esprime nella battute finali del testo: vv. 39-41).
Gv 9,1-7
Passando Gesù vide un uomo cieco dalla nascita. Cieco dalla nascita, quest’uomo ora rinasce venendo alla luce e vedendo la luce. Che cosa predispone questa rinascita? Lo sguardo di Gesù. Gesù vide l’uomo cieco. Vide l’uomo, anthropon. Gesù non vede anzitutto un malato, ma un uomo. I discepoli non solo non vedono un uomo, ma in un certo senso nemmeno un cieco, bensì solo il problema che la cecità pone loro. Non rivolgono nemmeno la parola a quell’uomo. L’incontro di Gesù inizia vedendo un uomo: non una categoria, non un problema teologico, non una colpa, ma un essere umano. L’incontro inizia con uno sguardo non inficiato dai pregiudizi: siano anche quelli della teologia, della cultura, delle abitudini mentali. I discepoli non avranno più alcun ruolo in questo racconto: scompaiono, ma in realtà non sono mai entrati in relazione con questa persona.
Lo sguardo di Gesù è generante, quello dei discepoli è giudicante. Gesù vede la sofferenza e si pone accanto alla vittima. Di fronte alla disgrazia che intacca il corpo di una persona, Gesù non dà risposte teoriche, ma assume la realtà come appello e afferma che anche nella disgrazia è possibile agire umanamente e santamente: “È così perché si manifestino le opere di Dio” (v. 3). Il male dell’uomo viene realisticamente assunto come luogo in cui Gesù può narrare lo sguardo di Dio sull’uomo e compiere l’azione di Dio. E Gesù compie l’azione divina per eccellenza ricreando quell’uomo. È evidente il richiamo al testo della creazione dell’uomo in Gen 2 nei gesti terapeutici compiuti da Gesù. Questa prima scena già indica che il gesto di Gesù è segno (manifestazione delle opere di Dio), non semplicemente guarigione fisica.
Gv 9,8-12
Gesù scompare dalla scena. Colui che era cieco non sa dove sia. Ovvero, il divenire umano e spirituale è ora affidato a quest’uomo che si deve scontrare con la realtà e attraverso questo scontro potrà fare avvenire in sé la guarigione e portarla a compimento. Ma da quando è stato guarito dalla cecità, tutto comincia a essere tremendamente più complicato per lui. Tutte le persone che conosceva e con cui aveva rapporti ora si distanziano da lui. Perfino i suoi genitori. Compaiono in scena i vicini, i conoscenti, coloro che erano abituati a vederlo come parte del paesaggio, perché era un mendicante che stazionava normalmente in un dato luogo. E pongono diverse domande: Interrogano, ma non si interrogano. È il punto di vista della superficialità.
Il loro interesse è meramente fattuale. Non pongono nemmeno domande circa l’identità di Gesù. Ma solo: Dov’è? Come ti ha aperto gli occhi? Questa assenza di profondità impedirà a loro di andare oltre e di essi non si parlerà più. Qui troviamo il primo passo del cammino di riconoscimento di Gesù quale Messia da parte di colui che era stato cieco. Egli dice: “L’uomo (ho anthropos) chiamato Gesù ha fatto del fango, mi ha spalmato gli occhi e mi ha detto: ‘Va’ a Siloe e lavati’”. Il contatto basilare si è stabilito: egli riconosce l’uomo che l’ha trattato umanamente. Arriva a riconoscere chi l’ha riconosciuto come uomo. Mentre comincia a difendere la sua identità da chi non lo riconosce: “Sono io” (v. 9). Era riconosciuto finché era un mendicante cieco: ora il mutamento lo rende irriconoscibile. La domanda è: sappiamo accogliere il mutamento della persona? O il cambiamento, addirittura la guarigione, perturba i nostri equilibri?
Gv 9,13-17
L’uomo guarito è portato dai farisei e viene interrogato. A partire dal fatto che la guarigione è avvenuta in giorno di sabato, si verifica una divisione tra due opposte interpretazioni del fatto (v. 16). I farisei si rendono conto che nell’evento vi è più della sola dimensione materiale e alcuni di loro parlano di segni. A differenza dei vicini, si interrogano più a fondo, ma non credono. Tuttavia si rimettono al cieco domandandogli: “Tu cosa dici di lui?”. Chiedono il parere a colui che ha vissuto in prima persona l’incontro. E quest’uomo avanza nella sua comprensione dell’identità di Gesù: è un profeta. Proprio l’interrogatorio a cui è sottoposto da chi lo sta processando lo conduce a capire meglio chi sia Gesù. Dai farisei impara che ciò che è avvenuto è un segno che rinvia a Dio stesso: la sua comprensione di Gesù cresce grazie alle opposizioni.
Gv 9,18-23
La posizione dei farisei non solo non progredisce, ma regredisce. Essi non credono che fosse stato cieco e poi guarito (v. 18). Per non farsi mettere in discussione dal segno, cercano di negare che sia avvenuto un prodigio. Convocano perciò i genitori di quell’uomo e li interrogano. I genitori riconoscono il fatto della guarigione: sono costretti ad ammettere che quello che hanno davanti è loro figlio, che era cieco e che ora non lo è più. Ma non si vogliono sbilanciare dicendo più di tanto, e questo per paura. Essi avrebbero potuto, suggerisce il v. 22, riconoscere Gesù come Cristo, ma non lo vogliono fare. Il timore dell’espulsione dalla sinagoga, che avrebbe comportato per loro un’emarginazione sociale e religiosa, li porta a scegliere ciò che loro conviene. Vogliono evitare fastidi. I genitori credono ma non testimoniano, si rifiutano di assumere le conseguenze pratiche del fatto avvenuto. Non sono abbastanza liberi per testimoniare. E così l’uomo che ha ritrovato la vista comincia a vedere uno spettacolo assai penoso: non creduto, lasciato solo, perfino dai genitori.
Gv 9,24-34
I farisei in questa nuova scena sono più aggressivi. Intimano all’uomo di dire la verità e di riparare all’offesa fatta alla gloria di Dio. Ormai la loro posizione è quella di chi detiene un potere e lo difende aggredendo. Il potere si nutre del monopolio del sapere: “Noi sappiamo che quest’uomo è un peccatore”. Hanno deciso che la non osservanza del sabato è l’elemento portante su cui far leva. Tuttavia, se è vero che l’uomo non può lavorare in giorno di sabato, Dio lo può. “Il Padre mio lavora sempre e anch’io lavoro” (Gv 5,17), dice Gesù in occasione della guarigione del paralitico alla piscina di Betsetà, avvenuta in giorno di sabato. Il sabato, il giorno del compimento della creazione è il momento adatto per la reintegrazione della salute degli uomini. Ma ormai i farisei usano le parole per costringere quest’uomo a confessare ciò che essi vorrebbero sentirsi dire. Usano la parola in modo manipolatorio. E ripetono le stesse domande all’uomo.
E ancora una volta è a partire dalle contestazioni che gli vengono mosse che egli arriva a una più profonda comprensione dell’identità dell’uomo che l’ha guarito. I farisei stessi avevano detto che segni simili non possono essere fatti da un peccatore, ma solo da uno che viene da Dio (v. 16). E ora, di fronte a un’ipotesi spacciata come verità comprovata (“Noi sappiamo che quest’uomo è un peccatore”), egli ripete la sua certezza che nessuno gli può togliere: “Ero cieco e ora ci vedo” (v. 25). Dalla certezza della propria esperienza, a cui egli rimane attaccato saldamente, ora passa a interpretare il tutto in modo esplicito: “Se costui non venisse da Dio, non avrebbe potuto fare nulla” (v. 33). Per quest’uomo, Gesù è un inviato da Dio. Ma questo gli costa l’espulsione dalla sinagoga. E così il suo statuto di vedente è peggiore di quando era cieco.
Gv 9, 35-41
L’uomo compie l’ultimo passo verso la fede. Incontra Gesù, non sapendo nulla del Figlio dell’uomo, ma non appena Gesù gli dice: “Lo hai visto: è colui che parla con te”, egli crede e adora. Il vederci passa attraverso l’ascolto, mentre la cecità è dovuta a difetto di ascolto. I farisei si lasciano interpellare dalle parole di Gesù (v. 39) e con timore chiedono: “Siamo ciechi anche noi?”. Forse intuendo che questa è una possibilità reale anche per loro. Ma Gesù risponde che il problema non è la cecità, ma la presunzione, il ritenersi nel giusto: è questa inossidabilità che chiude nel peccato. Accettare lo sguardo di Gesù su di noi significa imparare a vedere noi stessi in verità. Altrimenti, se siamo impegnati a difendere ad ogni costo le nostre certezze, allora non lasciamo spazio per ascoltare e impediamo che in noi si apra una breccia che ci conduce ad accogliere l’azione rinnovatrice di Dio. Ma non riusciamo nemmeno a incontrare gli altri sull’unico terreno che abbiamo a disposizione, la nostra umanità.
Luciano Manicardi
Monastero di Bose