La sofferenza che plasma il prete nel servizio alla Comunità

C’è sofferenza oggi nel vissuto di molti preti, che si sviluppa in una condizione di particolare solitudine. Solitudine personale, legata a ciascun individuo e alla formazione ricevuta. Solitudine ecclesiale, vissuta in comunità sfilacciate e a fronte di un sensibile calo numerico di preti e di una disaffezione alla pratica religiosa.

Solitudine sociale, per la perdita di un ruolo e di uno status riconosciuto. «Non si tratta solo di puntare il dito sui casi di scandalo e di abuso – che restano comunque un segno di grande sofferenza della chiesa – ma di considerare seriamente i segnali d’allarme rilevati chiaramente da chi si occupa di disagio», scrive Raffaele Iavazzo psichiatra di Como.

E continua: «L’istituzione ecclesiale sembra continuare ad offrire, al futuro presbitero, una formazione come se dovesse vivere costantemente sotto “assedio”. Il rischio è quello di creare una “bolla” in cui ci si difende dal virus, ma ci si isola dal vissuto quotidiano delle persone». Questo è testimoniato anche dalle risposte ad un questionario sulla salute psicofisica che i vescovi francesi hanno inviato ai propri preti. E conclude: «Occorre quindi un ripensamento corale sul processo formativo, perché c’è sempre più necessità di nuovi pastori, che siano espressione di una nuova comunità e della sua fede e siano ricchi di una buona capacità apostolica».

Dentro o ai margini della vita?

I presbiteri sono chiamati ad un confronto veritiero e costante con la propria umanità ferita, per imparare a prendersi cura delle ferite altrui.

Ma quali sono alcune di queste ferite? Senso di inadeguatezza e inutilità, disorientamento e demotivazione, desiderio di una chiarezza identitaria e di una leggerezza nell’impegno pastorale che appaiono sempre più evanescenti. «Il prete sembra presentarsi come l’anello debole di una catena che sopporta forti tensioni: egli si trova stretto tra attese e richieste divergenti dal basso e sollecitazioni ed esortazioni dall’alto. Questa condizione può essere vissuta in modo distruttivo».

Nella scelta di vita al ministero ordinato si è spesso coinvolti per stare accanto alle persone nei momenti definitivi della vita stessa: la nascita e la morte, l’unione e la separazione, l’amore e l’odio, la gioia, il dolore, la malattia e il lutto. Si è chiamati ad essere portatori di un messaggio di «senso» in ogni momento della vita umana. Un messaggio che non dipende dalle proprie intuizioni e parole, ma che è strettamente connesso alla Parola che Gesù ha consegnato ai suoi discepoli e alla fede in Lui crocifisso, morto e risorto.

È paradossale che, pur provocati continuamente ad entra[1]re in contatto con il nucleo della vita umana, ci si rende sempre più conto di essere alla periferia della vita stessa, cercando, magari troppo ansiosamente, le opportunità per esservi ammessi.

Forse è proprio la parola «solitudine» che riesce ad intercettare e ad esprimere, meglio di altre, questa esperienza immediata. La solitudine ripropone quel mondo di separazione, di incompletezza e di inadeguatezza che accompagna ogni esistenza umana. Se si creano false aspettative e illusioni, si impedisce a sé stessi di rivendicare la propria solitudine come fonte genuina di autocomprensione e di vicinanza agli altri.

La sofferenza legata alla propria solitudine si radica nella profondità del cuore. Spesso lo si dimentica, travolti dalle tante cose da fare. Solo la consapevolezza costante di questo aspetto di vita, può trasformare la debolezza in forza, elaborando tracce di cammini di cura e guarigione.

Scrive Anselm Grün:

Spetta a noi scegliere se lamentarci e sprofondare sempre di più nello sconforto, oppure se farne una opportunità per tornare in sintonia con noi stessi, per farci una cosa sola con tutto ciò che esiste: con Dio, con l’umanità e con l’intero creato. Dipende da noi (e dalla Grazia che possiamo sempre invocare – ndr), rimanere arenati nella ribellione contro la solitudine, e quindi isolarci, oppure vivere la nostra solitudine come una fonte da cui attingere. Allora noi vivremo la solitudine come una realtà preziosa che ci mette a contatto con la ricchezza del nostro animo.

È sempre più evidente che la vera condizione per imparare a stare con gli altri è quella di imparare, di tanto in tanto, a stare soli con sé stessi. È la grande intuizione che sottende il libro La vita comune di Dietrich Bonhoeffer. Non in una for[1]ma di isolazionismo autoreferenziale, non per fuga o per paura di un mondo che ci avvolge in relazioni complesse e, talvolta, ambigue. È una solitudine che aiuta a creare, in ciascuno di noi, un ritmo paziente, in grado di vivere il senso della attesa e dell’ascolto.

Anche Gesù saliva sul monte, solo, a pregare; questo lo portava ad una estensione in cui il suo cuore, la sua vita, il suo messaggio si allargavano agli altri, non in maniera possessiva per attirare attenzione o suscitare affetto, ma per offrire davvero tutto sé stesso.

Poema della Croce

Lo scrisse Alda Merini, la poetessa dei Navigli che, parlando di questa composizione, disse: «Cantare la croce significa cantare il dolore, ma al tempo stesso anche la liberazione. La croce richiama la morte, ma è pure la base della risurrezione».

In queste pagine straordinarie la poesia della Merini evoca con una forza visionaria e suggestiva il momento più tragico della vita di Gesù, rappresentato in tutta la sua fragilità umana, e con lui sua madre Maria, capace di dialogare con il Figlio suo attraverso un infinito silenzio.

Nella vita di ogni persona ci sono delle “soglie” da attraversare, in cui la domanda di senso è più intensa e l’esigenza di Verità diviene inderogabile: è il tempo della prova.

Scrive papa Benedetto XVI:

La sofferenza non possiamo eliminarla. Proprio là dove gli uomini, nel tentativo di evitare ogni sofferenza, cercano di sottrarsi a tutto ciò che potrebbe significare patimento, là dove vogliono risparmiarsi la fatica e il dolore della verità, dell’amore, del bene, scivolano in una vita vuota, nella quale forse non esiste quasi più il dolore, si ha tanto maggiormente l’oscura sensazione della mancanza di senso e della solitudine (Spe salvi, 37).

Non siamo invulnerabili, né onnipotenti, anche se talvolta ci si crea l’illusione di esserlo. Accettare che la sofferenza faccia parte dell’esistenza umana significa aprirsi alla verità di sé stessi. Questo aiuta a scoprire come la propria debolezza, la propria finitezza siano un appello non gridato, ma sussurrato, all’Infinito.

Ce lo dimostrano tante persone amiche o incontrate anche solo occasionalmente che, nella faticosa esperienza del dolore, fanno emergere significati plausibili e impensabili in situazioni talvolta drammatiche, giungendo a fare della loro vita un dono, una offerta viva.

Sono donne e uomini che hanno il coraggio e la grazia di aprirsi alla verità di un Dio, che non offre un ragionamento che spieghi tutto, ma dona la sua risposta nella forma di una presenza che accompagna, di una storia di bene che si unisce ad ogni storia di sofferenza, per aprire in essa un varco di luce. La fede non è luce abbagliante che dissipa tutte le nostre tenebre, ma una lampada che guida nella notte i nostri passi, e questo basta per il cammino (Lumen Fidei, 57).

Nella lunga esperienza della Chiesa non mancano i testimoni di una vita donata nella sofferenza. Scrivendo queste righe mi ritorna alla mente Angela, una donna incontrata alla Piccola Casa della Provvidenza (il Cottolengo) a Torino. Era sorda, muta e cieca, eppure attraverso la sua gioiosa donazione ha aiutato molti giovani a camminare con verità verso scelte di vita offerte al Signore e agli altri.

Questi maestri del vivere ci suggeriscono che, per dare senso alla vita, occorre aprirsi all’Amore e al dono di sé. «Chi ama capisce che l’amore è esperienza di verità, che esso stesso apre i nostri occhi per vedere tutta la realtà in modo nuovo, in unione con la persona amata» (Lumen fidei, 27). Quando ci si apre alla verità dell’amore, la vita germoglia ovunque e la sua forza generativa non può essere tenuta nascosta.

«La vita infatti si manifestò, noi l’abbiamo veduta e di ciò diamo testimonianza e vi annunciamo la vita eterna, che era presso il Padre e che si manifestò a noi; quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunciamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi» (1Gv 1,2-3).

La sofferenza consolata

«Chi ama la propria vita, la perde» (Gv 12,25). Chi ruota continuamente attorno a sé e ai propri problemi, si fa del male. Chi si pone come unico obiettivo di liberarsi dalle proprie angosce, resterà sempre con lo sguardo fisso sulla propria paura. Chi vuol tenere tutto sotto controllo, perderà certamente il controllo della propria vita. Talvolta non ci si accorge di collocare la meta del proprio cammino troppo vicino a sé stessi e ciò diviene causa di tante sofferenze interiori.

La vita ci procurerà sempre delle ferite, che lo vogliamo o no. Il problema è comprendere quale rapporto si può instaurare con questi momenti di prova e di sofferenza. Possiamo renderli più acuti, facendoci del male o possiamo essere capaci di alzarci e di andare là dove c’è bisogno di noi. «Le ferite si trasformeranno in perle preziose», scrive S. Ildegarda di Bingen, dichiarata dottore della Chiesa da papa Benedetto XVI.

È un tesoro prezioso che ci pone a contatto con il nucleo più profondo e più vero di noi stessi e con la nostra «natura divina», come suggerisce la seconda lettera di Pietro. «La sua potenza divina ci ha donato tutto quello che è necessario per una vita vissuta santamente, grazie alla conoscenza di colui che ci ha chiamati con la sua potenza e gloria. Con questo egli ci ha donato i beni grandissimi e preziosi a noi promessi, affinché per loro mezzo diventiate partecipi della natura divina» (2Pt 1,3-4).

Se ci si lascia plasmare dai momenti di prova e ci si lascia toccare dalla sofferenza con la quale si entra quotidianamente a contatto, essa non ci distruggerà né ci farà del male. Ci apparterrà come qualcosa di prezioso, che ci pone in una comunione più profonda con il Signore Gesù. Ciò che Lui continuerà ad operare in noi è la premessa di una vita in cui si apre uno squarcio di Cielo. Questa è l’esperienza della «memoria grata» a cui ci invita papa Francesco.

La gioia evangelizzatrice brilla sempre sullo sfondo della memoria grata: è una grazia che abbiamo bisogno di chiedere. Gli Apostoli mai dimenticarono il momento in cui Gesù toccò loro il cuore: «Erano circa le quattro del pomeriggio» (Gv 1,39) (…) Il credente è fondamentalmente “uno che fa memoria” (Evangelii gaudium, 13).

I giorni della Settimana santa sono i giorni in cui si leggono i vangeli della Passione di Gesù. Passione è sinonimo di soffrire. Per vivere in pienezza la propria vita, occorre accettare la grammatica della sofferenza e questi giorni ne sono una continua, drammatica testimonianza. Passione significa anche vivere un grande amore. Appassionarsi è consegnare la propria vita a qualcuno, perché gli si vuole immensamente bene. Ciò vale per ogni scelta di vita donata, che diviene vita «consegnata».

Consegnare: è il verbo che l’evangelista Matteo ripete per 15 volte nei due capitoli della Passione. Sofferenza. Pazienza. Amore grande. Consegna della propria vita. Come afferma il poeta spagnolo Miguel de Unamuno, c’è un filo d’oro che unisce questi atteggiamenti, così profondamente umani e insieme così divini: la gratuità.

Nico Dal Molin