Sabato santo: giorno di ritorno alla normalità, giorno in cui l’avventura del Nazareno si è conclusa, con una pietra su un sepolcro, e tutto è finito, consumato. È un giorno che sentiamo molto vicino a noi, che forse abbiamo avuto speranze di vite rinnovate – almeno a livello generale, dopo due anni di pandemia – ma queste speranze si sono invece rivelate deboli, travolte da notizie di guerra, di morte, di violenza. Eppure «chi siamo e a che cosa crediamo viene fuori davanti al disagio, nell’ora arrischiata», scriveva giustamente Cesare Pavese.
Dunque, possiamo sostare in questo sabato che ci conduce alla Pasqua tentando di saggiare chi siamo e che cosa crediamo. Come Pietro, il più dinamico dei discepoli dopo la morte del Maestro. Perché gli evangelisti raccontano di un Pietro in movimento: Luca parla, nelle letture di questa sera, di un uomo scosso che, seguendo qualche parola poco credibile di alcune donne, va al sepolcro, trova soltanto dei teli e sente «lo stupore per l’accaduto». Giovanni, invece, narra di una corsa a due, in cui Pietro arriva dopo, ma entra per primo: si ricorda che Giovanni credette, ma non dice nulla di Pietro.
In questo sabato santo, giorno di silenzio, sentiamo forse molto vicino a noi Simon Pietro: un uomo che ha creduto, e poi ha sperimentato la delusione. Un uomo che ha giocato la vita su Gesù di Nazareth, ma poi ha visto la sua terribile fine, arrivando anche a rinnegarlo.
È Pietro, forse, colui che incarna meglio il nostro essere cristiani in cammino nel tempo, tesi a celebrare una Pasqua, l’ennesima, che trova pesi e fatiche. Ma, dobbiamo riconoscerlo, quando mai non è così, tra le pieghe della storia e le vicende di ognuno? Allora è oltre che bisogna cercare.
Nel momento della Pasqua, abbiamo spesso sentito parole di vite rinnovate, di ripartenze, declinate nel nostro vivere, in modo anche opportuno, certo. Però, dobbiamo anche avere il coraggio di interrogarci nel profondo riguardo alla resurrezione di Gesù, nel suo portato totale: fisico, storico, metafisico. Gesù è risorto, è il risorto? È la domanda decisiva del cristianesimo: «se Cristo non è risorto, vuota allora è la nostra predicazione, vuota anche la vostra fede», scriveva Paolo ai Corinti. Qui è il nucleo, che forse a volte perdiamo di vista: Cristo «ora invece vive, e vive per Dio», risuona nell’epistola ai Romani. Ed è giusto cantare di rinnovate speranze e di strade ricostituite, ma queste sono la conseguenza della resurrezione di Cristo su cui, vale la pena ribadirlo, non contano le dimostrazioni razionali. È lì lo scarto tra fede e smarrimento, come aveva ben colto Paolo all’Areopago di Atene: perché è da lì che possiamo dire che la vita è più forte della morte, che l’amore consegnato non è perso, che il Figlio di Dio ha inaugurato un futuro per ogni uomo e donna. Fuga dalla realtà? O desiderio? «Le constatazioni sono inutili per i credenti e sono insufficienti per gli increduli», scriveva Émile Zola, nel suo Viaggio a Lourdes, negando ogni dimensione soprannaturale nella cittadina francese.
Anche noi dovremmo prendere sul serio la questione della resurrezione di Gesù, se siamo persone (di fede o nel dubbio o anche atei) che vogliono un’esistenza piena. Prenderla sul serio per prendere sul serio le nostre scelte e non edulcorare la Pasqua, come già avviene per il Natale, trasformandola in una festa di primavera. È quello che fa Pietro, che si mette in moto, che esce, che va a vedere, che non capisce e si interroga. Che scava in sé e osserva quello che ha davanti agli occhi.
Abbiamo forse smarrito il coraggio di farci mettere in discussione dalla resurrezione di Gesù. Su cui non abbiamo prove certe e dimostrabili, ma un’altra via ci è permessa: possiamo almeno abitare il desiderio della sua resurrezione, il desiderio profondo – che diviene fede – che quella vita non poteva terminare sulla croce, perché il Padre non poteva chiudere così la vita del Figlio. In questo modo, nella sua resurrezione, si apriva un dono per tutti.
«Il Castello, i cui contorni cominciavano già a dissolversi, era lì, immobile come sempre, mai K. aveva scortò lassù il minimo segno di vita, forse da quella distanza non era assolutamente possibile distinguere qualcosa, eppure gli occhi lo desideravano, e non volevano accettare quella immobilità»: è un passo del Castello di Kafka, allegoria ricca e intensa dell’uomo moderno, nel suo continuo tentativo di arrivare, di vedere, di intuire qualcosa di ciò che sta sopra il protagonista, quel Castello misterioso che attrae e respinge, che dice e non dice.
È un passo che esprime bene, credo, cosa muove le donne al sepolcro, cosa muove Giovanni e Pietro: «gli occhi lo desideravano, e non volevano accettare quella immobilità». È perché desideravano e non volevano accettare, misteriosamente, quella fine, che può schiudersi davanti a loro, per primi, l’annuncio che il Crocifisso è risorto, o meglio: che il Risorto è il Crocifisso.
Nel tempo che ci porta alla Pasqua, e anche dopo, possiamo sentire il desiderio intimo e grande che Gesù di Nazareth è risorto, e non muore più.