Tempo superiore allo spazio, libertà nella ricerca, poliedro e presa di distanza dai giudizi lanciati come pietre sulle vite delle persone contrassegnano l’inizio e la fine di Al (2-3 e 305) e in certo senso anche questi dieci anni che, nell’accelerazione che stiamo vivendo, rappresentano un arco temporale significativo.
Di Chiesa cattolica si parla, certamente, ma non solo e per più ragioni: perché i cattolici, più o meno praticanti, vivono nel contesto comune a tutti gli altri; in secondo luogo perché nonostante il loro calo numerico, in ambiti sensibili è ancora forte la pressione esercitata dal loro establishment, con esito nullo sul disarmo e scarso sulla giustizia, ma ancora forte su alcuni temi sessuali, così come sul fine vita; infine perché i giudizi – caustici o al contrario benevoli – non lasciano indifferente, in fondo, nessuno.
Ha senso, dunque, in questo quadro generale, per giunta in un contesto di crisi ambientale ingravescente e di guerra diffusa, ritagliare uno spazio specifico per le donne e il dibattito sul genere? La risposta può essere affermativa solo ad alcune condizioni, che cercheremo di onorare: prima di tutto che le donne non rappresentino un tema – una categoria di fragili, magari raccolta nel singolare “donna” ma siano considerate soggetti plurali e anche prisma da cui leggere sessualità, famiglie e società e poi a condizione che parlare di loro non sia un modo per omettere, ancora una volta, di nominare il convitato di pietra, ossia la questione della maschilità. In entrambi questi sensi anche l’input fornito da AL ha chiesto e chiede di essere precisato e ampliato. I toni del dibattito attorno al genere hanno invece goduto enormemente della interruzione della animosità permessa anche dall’Esortazione post-sinodale, cui ci stiamo riferendo: lo segnalano fra gli altri i nn. 56 e 286 che fanno di quello che era un campo di battaglia una questione su cui riflettere. Lo mostra anche il clima con cui si è giunti al Sinodo attuale. Sarebbe facile iniziare dicendo che le donne non sono più “angeli del focolare” perché non ci sono i focolari. Non voglio sostenere posizioni ireniche o addirittura negare l’evidenza di molti fattori di crisi, nel senso più comune del termine. Sono, però, convinta che esistano molti nuclei di vita comune, di affetto e di cura reciproca: molte famiglie, appunto.
AL ha recepito quanto le scienze sociali e antropologiche (nel senso della antropologia culturale) dicevano da tempo, ossia che i modelli di famiglia sono molti e si riscontrano, anche in Italia, contemporaneamente e non solo nell’agorà multiculturale della immigrazione di prima, seconda e terza generazione, ma anche tra persone di lunga tradizione italiana: famiglie estese, famiglie nucleari e anche monoparentali; famiglie ricomposte, provenienti da diverse unioni precedenti; famiglie monoaffettive, con o senza figli, e persone che vivono da sole e che spesso coltivano relazioni di coppia più o meno stabili e – perché non computarle? – famiglie religiose, di persone consacrate, di solito omogenee, o tutte maschili o tutte femminili.
Tutte queste modalità, alcune delle quali sono indicate come situazioni complesse (nn. 247252) si rileva che sono/dovrebbero essere attraversate dalla cura reciproca, dall’affetto, dal rispetto, dalla dimensione estetica ed erotica e dalla generatività, sia pure in modi diversi (nn. 126-146)). In questa complessità e nelle crisi che l’attraversano le donne svolgono ruoli importanti: alcuni nella realtà anche se spesso sottaciuti, altri nell’immaginario sovente ipertrofico e popolato da fantasmi. Iniziando dalle constatazioni, sia empiriche che legate a indagini statistiche, ci si rende conto che, fatte salve le dovute eccezioni, anche nelle forme di convivenza meno convenzionali, come le convivenze e le persone single che coltivano intensevarie relazioni, che spesso e compatibilmente con esigenze lavorative e aggravi economici la residenza prescelta, specie dalle donne, è matrilocale. Si deve interpretare come “mammismo latino”?
È il vecchio welfare all’italiana che trova nella cura reciproca fra generazioni quanto non viene offerto a livello sociale? O può indicare anche l’intraprendenza femminile che continua a trovare modalità creative per vivere la famiglia, qualunque essa sia, senza rinunciare alla professione e ad altre pratiche culturali? È a questo livello, comunque, che l’innegabile forza delle donne si mescola con dimensioni negative che non si possono più ignorare: il lavoro sottopagato, in nero o introvabile (gender gap) che ha perfino meritato in questi giorni il Nobel per l’economia e il meccanismo detto della scogliera di cristallo. Quest’ultimo è un punto di vista sofisticato che interagisce con quel più noto soffitto di cristallo che impedisce la presenza di donne in ruoli apicali: la scogliera, altrettanto efficace pur se invisibile, suggerisce invece che nella crisi si cercano proprio le donne, salvo poi respingerle ai margini quando il pericolo è passato.
Superfluo osservare che ognuno di questi aspetti si vive anche nella Chiesa? Scontato, sì, superfluo forse no, visto che soffriamo di maculopatia piuttosto seria e vediamo meglio all’esterno che all’interno. Accanto a questi dati fin troppo reali, si aggirano poi i fantasmi vecchi e nuovi, per cui le ex angeli del focolare diventano streghe maligne: uno rilanciato di recente colpevolizza le donne per la denatalità – intesa come mancanza di figli italiani di madre autoctona – senza tener conto delle difficoltà economiche, nonché della cri-si sistemica dell’ambiente e delle guerre spaventose.
Colloco qui, ma poteva essere anche il primo punto, un aspetto drammatico e per niente in miglioramento, non ignoto a AL, ma che chiede ancora maggiore analisi oltre che vigilanza: mi riferisco alla violenza nei nuclei familiari, a volte per gelosia ma più spesso perché le donne vogliono interrompere un rapporto di coppia o l’hanno già fatto e che va dalla violenza psicologica alle percosse fino a totalizzare un numero impressionante di femminicidi. Piaccia o meno il neologismo, il fenomeno è veramente impressionante e non cenna a diminuire. Ad esso si devono aggiungere gli stupri, spesso agiti da branchi di uomini, anche minorenni, e i linciaggi mediatici, questi rivolti a tante tipologie di persone.
Come si chiede da tempo per un altro plesso drammatico quale quello degli abusi – ecclesiastici, ma anche di altri adulti con potere sui minori, nel mondo della scuola e dello sport e, ancora una volta anche se si tende a tacerlo, nella famiglia – è tempo non solo di abbandonare definitivamente l’omertà, ma anche di aprire laboratori stabili per comprenderne meglio le cause. Tralasciando, ovviamente, i tentativi di colpevolizzare ancora una volta le vittime, peraltro esclusi anche in AL 54, saltano agli occhi sia le dimensioni strutturali del fenomeno degli abusi che l’esigenza di un lavoro sulla maschilità, il nostro convitato di pietra, che per “lungo tacer pare fioco”. L’espressione dantesca a cui faccio spesso ricorso mi sembra rispondente alla situazione ed essere, almeno spero, abbastanza rispettosa di una situazione che non è omogenea, la cui descrizione come tale verrebbe a colpevolizzare proprio gli uomini – qui nel senso ristretto di maschi – che stanno tentando di uscire da quella sorta di nebulosa che impedisce loro di mettersi a tema come parziali, di mettere a fuoco in prima persona gli elementi educativi e strutturali che perpetuano la gerarchizzazione (anche la loro) per cui la differenza diventa discriminazione, fino all’esclusione o alla violenza. Qualcosa o, meglio, qualcuno, si sta muovendo anche in Italia e lo dimostrano pubblicazioni, associazioni, nonché i dialoghi che ognuno può intrecciare.
A livello ecclesiale e soprattutto ecclesiastico, dato che al momento i quadri sono ancora maschili, servirebbe proprio un colpo di reni perché i percorsi intrapresi da qualcuno non siano soffocati, come lo stoppino incerto e piccolo di cui parla il Vangelo. Perché questo sia possibile serve capacità di introspezione, umiltà per apprendere da cammini già fatti, disponibilità alla conversione personale e delle strutture. Per tali ragioni, e torno all’aspetto segnalato all’inizio, è essenziale che continuiamo a custodire lo spazio di ascolto serio e pacato che, senza ingenuità ma anche senza preconcetti, si sta muovendo attorno alla questione di genere, nel senso più ampio del termine.
di Cristina Simonelli
Teologa, docente di Storia della chiesa antica, Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale, Milano