I tempi del primo Natale non sono molto diversi dai nostri tempi: incognite e speranze

In questo Natale che si avvicina, le parole del profeta Isaia che si leggono come prima lettura nella Messa di notte risuonano con un accento nuovo: “il popolo che camminava nelle tenebre ha visto una grande luce; su coloro che camminavano in terra tenebrosa, una luce rifulse”. E poi: “hai aumentato la gioia, hai moltiplicato la letizia…”. Sì, mai come oggi possiamo dire che c’è un’umanità intera che cammina nelle tenebre. Le tenebre di una pandemia che sembra non aver fine. Che si aggiunge ai mali di cui il nostro mondo già soffriva: catastrofi ambientali e povertà drammatica dei due terzi dell’umanità. Una pandemia che tuttavia può insegnarci lezioni salutari e che può persino aiutarci a riscoprire il messaggio del Natale, ponendoci di fronte ai nostri limiti.

Prima di tutto il limite della nostra conoscenza; la scienza infatti, benché necessaria, non è onnipotente; non sappiamo ancora da dove viene questo virus; non sappiamo bene come combatterlo; non basta perciò un superficiale ottimismo (“andrà tutto bene”); non bastano gli scienziati, da soli, a salvare l’umanità. In ogni caso anch’essi sono inermi di fronte al mistero della morte.

La pandemia ci pone di fronte ad altri due limiti ben più evidenti: quello dello spazio, e quello del tempo. Nulla è più scontato, neppure il respirare. La vita è un dono; nemmeno un abbraccio o il darsi la mano ci appaiono adesso gesti normali. Il limite del tempo, la morte, è quello certamente più drammatico.

Gesù stesso nacque in un contesto di tenebre: scriveva il cardinal Martini in una sua meditazione profetica, nel Natale del 2008: «Un viaggio faticoso da Nazaret a Gerusalemme per soddisfare la vanità di un imperatore, le pesanti ripulse ricevute da Giuseppe che cerca un posto dove possa nascere il bambino, il freddo della notte, il disinteresse con cui il mondo accoglie il figlio di Dio che nasce. E su tutto questo grava una pesante cappa di grigiore, di incredulità, di superficialità e di scetticismo, evidenziata nelle gravissime ingiustizie presenti allora nel mondo. Non si può dire che il contesto del primo Natale fosse un contesto di luce e di serenità, ma piuttosto di oscurità, di dolore e anche di disperazione».

Il messaggio del vangelo ci offre la possibilità non tanto di eliminare questi limiti, ma di prenderne atto, di accettarli e di trasformarli. Tornando a Isaia, il profeta fonda il suo messaggio di gioia sull’annuncio della nascita di un misterioso bambino: “poiché un bambino è nato per noi, ci è stato dato un figlio…”. Niente di eccezionale: nascerà un bambino, come sempre è accaduto nel mondo. Come avverrà settecento anni dopo Isaia in quella notte di Betlemme, nel racconto di Luca. Un bambino, figlio di una sconosciuta ragazza di Nazareth, Maria, deposto in una mangiatoia; solo un piccolo gruppo di pastori sembra accorgersene.

Il Salvatore, dice ancora Luca, o meglio, lo fa cantare poeticamente agli angeli: “vi annunzio una grande gioia: oggi, nella città di David, è nato per voi un Salvatore, che è il Cristo Signore”. Al di là del racconto traspare l’immagine di un Dio straordinario che accetta i nostri stessi limiti: nello spazio e nel tempo, fino alla morte. Un Dio che ci libera dalla nostra mortale illusione di essere invulnerabili e onnipotenti. Lui per primo si rende infatti vulnerabile e mortale. E mette la sua vita al servizio dell’intera umanità, per un atto di amore.

Questa pandemia può ancora diventare un’occasione di grazia, in questa disgrazia globale che il mondo sta attraversando, un’occasione per noi comunità cristiane perché possiamo riscoprire l’autenticità del cristianesimo; nulla sarà infatti più come prima; non illudiamoci: in un modo o in un altro non ritorneremo più a una presunta normalità. Dietro le luci natalizie, dietro gli alberi di Natale che fanno un po’ tristezza e dietro gli assalti nevrotici ai negozi rischia di esserci ormai soltanto il vuoto, alimentato da una neolingua che ricorda tanto l’inquietante romanzo di George Orwell, 1984: parole come lockdown, come smart working (perché non: “lavoro a distanza”?), un lavoro che è tutto tranne che “smart”; oppure parole che evocano cupi scenari di guerra, come “coprifuoco”, espressioni come “distanziamento sociale”, come se la socialità fosse un male; un linguaggio che rischia di far passare per normalità una vita assolutamente anormale. Niente sarà più come prima; tutto sarà diverso. E i cristiani hanno una carta da giocare perché il mondo possa essere sì diverso, ma realmente migliore.

Il Natale ci indica una strada. Quella di accettare prima di tutto i nostri limiti, la nostra vulnerabilità, la nostra umanità. Non pretendere di essere onnipotenti, di poter dominare il mondo e di poterlo sfruttare e spolpare fino all’osso. La strada di riscoprire l’essenzialità, il valore delle cose, del dono, della natura, degli affetti, dell’amicizia, del nostro corpo, delle piccole cose, dell’amore. Riscoprire la realtà della famiglia come primo luogo dove si impara ad amare e dove ci si incontra con la fede, dove la si trasmette ai figli. Comprendere che dietro a tutto questo c’è un donatore: c’è un Dio che ama la sua creazione e l’intera umanità. E’ ciò che scrive la lettera di Paolo a Tito: “è apparsa la grazia di Dio che porta salvezza a tutta l’umanità”.

L’altra strada da seguire è quella della fraternità; questo Dio fatto bambino è venuto per tutti, senza esclusioni. Luca mette in bocca agli angeli questo canto: “gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama”. Siamo tutti sulla stessa barca, per dirla con una metafora. Nessuno si salva da solo; l’umanità vive o muore assieme; compresi i più deboli che molti vorrebbero escludere, i migranti, gli anziani che consideriamo inutili e che in questi tempi si spengono lentamente nelle case di riposo, isolati da ogni rapporto umano, i bambini non nati o i malati terminali che vorremmo eliminare in nome di una falsa pietà. E’ quello che ci ha ricordato papa Francesco nella sua ultima enclica Fratelli tutti.

Questa è un’ulteriore sfida per le comunità cristiane. E’ finito, io credo (e spero), il tempo del catechismo fatto solo per la prima comunione, della parrocchia intesa come cosa del clero, della chiesa vista come agenzia del sacro alla quale ricorrere per battesimi, matrimoni e funerali. La chiesa è chiamata ad essere comunità di persone che vivono insieme la fede e la testimoniano agli altri nella vita di ogni giorno. Persone che qui, nella celebrazione della eucarestia – anche se in questi tempi tristi vissuta in modo limitato – trovano la forza e il centro della loro vita, e che poi nel lavoro, nella scuola, nella vita quotidiana testimoniano che siamo davvero tutti fratelli.

Allora il Natale diviene anche quest’anno, nonostante tutto, un messaggio di gioia e le parole di Isaia, il canto degli angeli del vangelo, non perdono la loro forza. Una gioia fatta di piccole cose. Un saggio della Bibbia, il Siracide, scriveva due secoli prima di Cristo: «figlio, per quanto ti è possibile, trattati bene (…). Non privarti di un giorno felice, non ti sfugga nulla di un legittimo desiderio» ; e ancora: «regala, accetta regali, divertiti, perché negli inferi non si ricerca l’allegria» (Sir 14,14.16). Parole sorprendenti, ma solo per chi non conosce la Bibbia, parole che papa Francesco riprende sia nella Evangelii Gaudium che nella Amoris Laetitia. E un altro saggio di Israele, il Qohelet, aggiunge: «nel giorno lieto sta’ allegro, nel giorno triste rifletti; Dio ha fatto questo al pari di quello perché l’uomo non possa trovare ciò che accadrà dopo di lui» (Qo 7,14). Un invito, in questa vita così breve e troppo spesso carica di una tristezza che non di rado ci causiamo da soli, a gioire dei piccoli doni che il Signore mette sul nostro cammino: nulla è più scontato oggi, neppure alzarsi al mattino, guardare il cielo e abbracciare i nostri cari. E in questo Natale, poter guardare il presepio e ringraziare il Signore fatto bambino della sua presenza in mezzo a questa nostra umanità.


*Don LUCA MAZZINGHI, parroco di San Romolo a Bivigliano (Fi), già Presidente della Associazione Biblica Italiana, è docente alla Pontificia Università Gregoriana Ha pubblicato numerosissimi articoli e libri nel campo degli studi biblici. 

di Luca Mazzinghi