Il dogma dell’Immacolata Concezione, celebra una verità riconosciuta nella sua certezza solo nel 1854, ma creduta da sempre nella Chiesa: Maria, la madre di Gesù, è venuta al mondo senza essere stata “segnata” dal peccato originale e dai suoi effetti. Non esiste testo neo testamentario che sostenga direttamente ed esplicitamente questa verità, perciò nel giorno dell’Immacolata, viene letto il brano dell’annunciazione, cioè della notizia data a Maria che rimarrà in cinta di Gesù, per opera dello Spirito Santo.
L’assegnazione di questo vangelo a questa festa consente, però, di intravvedere, quale sia il senso di questa verità per la vita di fede dei credenti: cosa dice a noi, come credenti, che Maria sia venuta al mondo in questo modo? Rileggiamo il testo.
La “forza di Dio” (Gabriel v. 26) raggiunge una giovane donna vergine di nome Maria, a Nazareth, città della Galilea. Questi nomi hanno un senso preciso rispetto alla domanda che ci guida. Maria è un nome biblico che, prima della madre di Gesù, compare solo una volta, durante la vicenda della liberazione dall’Egitto e dell’esodo successivo. È la sorella di Mosè ed Aronne, che per ambizione e attraverso intrighi, cerca di prendere il posto di Mosè e finisce per essere colpita dalla lebbra (Nm 12 ss). Nella società ebraica, quindi, questo nome era segnato dalla sventura ed evocava la maledizione di Dio, tanto che nessuna donna biblica, dopo l’esodo, verrà chiamata Maria. Scelta davvero strana, perciò, quella di Gioacchino ed Anna (nonni di Gesù), di chiamare la figlia Maria.
Non solo. Nazareth era una città mai nominata prima d’ora nella bibbia, che godeva di dubbia fama presso gli Ebrei di Gerusalemme e dintorni. Quando Filippo racconta a suo fratello Natanaele che ha incontrato il messia ed è nazareno, lui risponde: “Da Nazareth può mai venire qualcosa di buono?” (Gv 1,46), perché questa città aveva la nomea di essere un covo di rivoluzionari, di terroristi che per zelo religioso si rivoltavano contro i romani. Ma anche la regione della Galilea non era ben vista nella cultura ebraica. “Galil” in ebraico significa semplicemente regione, perciò, come dire una zona senza identità, tanto che Matteo la chiama “galilea delle genti” (Mt 4,15), ad indicare che era una zona di confine, di immigrazione e di confusione identitaria per gli Ebrei.
Ebbene, proprio in queste condizioni che il papa chiamerebbe “periferie” la forza di Dio genera il “salto” essenziale per la storia della salvezza. Proprio là dove nessuno si aspetterebbe che Dio possa operare; proprio dove la logica umana non vede alcuna possibilità. Perché questa scelta? Per rendere ancora più chiaro ed evidente ciò che Paolo aveva già scritto 30 anni prima, parlando della propria esperienza di fede. Per tre volte aveva chiesto a Dio di essere liberato dalla famosa “spina nella carne” e la risposta di Dio era stata: “Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza” (2 Cor 12,9).
A dire che la fede è dono di Dio e che noi, da soli, non siamo in grado di auto produrcela. I nostri limiti umani, da soli, non consentono di accedere alla fede e di crescere in essa. È necessario un intervento di Dio che faccia fare un salto a questa nostra condizione umana, affinché in essa si possa rendere presente la sua forza e il suo amore. Che Maria sia concepita senza peccato ci ricorda che è nelle mani, nei tempi e nei modi di Dio la possibilità di amarci “come lui ci ha amato”, e che ciò non dipende dal nostro sforzo di volontà, a cui viene chiesto solo di non ostacolare la “forza di Dio”.
Già questo ci segnala che la fede è qualcosa di difficile, che non si accoglie con leggerezza e facilità, ma richiede all’uomo di accettare un salto che vada oltre ciò che si vede e si riconosce in modo immediato. La postura adeguata, allora, è solo quella dell’attesa e dell’invocazione a Dio, che è ciò che l’Avvento ci sollecita: potenziare il nostro desiderio di credere e la richiesta a Dio che aumenti la nostra fede.
Ma c’è un secondo lato, in questo vangelo, che ci aiuta a rispondere alla domanda iniziale. A Maria viene rivolto un saluto “inusuale” nella cultura ebraica. Alla lettera andrebbe tradotto con una parafrasi ampia: “Gioisci, tu che sei la gioia di Dio” (v. 28). Ma la reazione di Maria è totalmente il contrario: “fu angosciata fino a tremare” (v. 29), perché non riusciva a comprendere il senso di quel saluto. Qui, forse, non c’è solo la paura dell’ignoto, ma anche un vago sospetto che la “forza di Dio”, per l’enorme sproporzione rispetto a lei, possa annientarla, come si vede bene in una decina di passi biblici, dalla genesi all’apocalisse.
Maria, cioè, deve fare i conti con il rischio e la paura di morire, di fronte a questo avvenimento. La sua risposta di fede, perciò, è ben di là da venire, ed è piena di difficoltà, per ora. Quindi ha bisogno di esplicitazioni che le vengono date (vv 30-33) per non essere soggiogata da questa paura. Potremmo immaginare che questo le basti. Ma invece, anche quando si rende conto che non morirà e che il “cosa” di questo avvenimento è che dovrà diventare madre del “figlio di Dio” (una bestemmia agli occhi degli ebrei), ancora non si “concede” e chiede un “come”, perché non ha “sperimentato alcun maschio” (v. 34).
Maria, cioè, ha i piedi ben per terra e non è disposta a credere senza comprendere in modo sufficiente, nelle sue categorie umane, ciò che le sta accadendo. E questa è la nostra stessa condizione. La fede richiede di attraversare le difficoltà di essere creduta. Non esiste a costo zero e finisce per impegnare le migliori forze dell’uomo, perché l’accettazione di qualcosa che ci sorpassa tende a procurarci il senso della vertigine e dell’impossibilità.
Forse, proprio per questo, la “forza di Dio” non dà a Maria solo una risposta al “come”, ma la mette in condizione di poter verificare concretamente che ciò che le viene detto è reale: “Elisabetta, la tua parente, anch’essa ha concepito (…) lei, chiamata sterile” (v. 36). La fede di Maria ha bisogno di poter essere toccata con mano, dentro ai normali limiti umani. Non è una fede facile, ad occhi chiusi, vissuta per fuggire alla realtà. Al contrario, Maria vuole una fede reale, anche a costo di dover riconoscere una realtà assolutamente “fuori schema”.
A questo punto arriva il v. 38: “Sia fatto a me secondo la tua parola”. E di solito ciò viene letto come il “sì” pieno di Maria a Dio. Ma qui non c’è ancora la gioia a cui è stata chiamata ad arrivare, non c’è la pienezza esuberante di chi ha deciso la consegna di tutto sé stesso. Perciò, forse, qui c’è solo l’accettazione dell’impossibilità esistenziale di sottrarsi alla “forza di Dio”, un livello di fede cioè ancora grezza e quasi fatalistica. Qui non c’è il canto di gioia di Maria, ma il suo rendersi “schiava” (v. 38). Solo dopo aver incontrato Elisabetta la sua fede sarà piena e gioiosa e si trasformerà nella meraviglia del “magnificat”. Cioè, lei decide di consegnarsi a Dio pienamente solo dopo aver toccato con mano e verificato che ciò che le è stato detto è reale.
Questo percorso di fede di Maria non può essere ignorato, in nome di una visione un po’ angelicata e sublimata di questa donna, che spesso ancora ci portiamo dietro. Perché, così facendo lei diventa un modello irraggiungibile e finisce per essere messa in una posizione quasi divina, inclinando verso una immagine femminile della divinità, tipica delle religioni precristiane, assente invece se si ascolta il testo nel suo dato reale.
Qui, infatti, ci viene detto che quella fede che è dono di Dio, si realizza solo e sempre dentro ai limiti umani, accettando la difficoltà di attraversarli, senza mai superarli o ignorarli. “Diecimila difficoltà non fanno un solo dubbio” (J.H. Newman – La grammatica dell’assenso, cap. 5). Perciò la fede senza difficoltà è “pericolosa”, perché significa che non abbiamo fatto tutti i passaggi di verifica che Maria ci mostra, rischiando così di “saltare” una parte dell’umano, i nostri limiti. L’avvento, allora, ci chiama ad avere il coraggio di riconoscere e accettare i nostri limiti e le nostre difficoltà di credere, come parte essenziale per prepararci alla venuta di Cristo.
I limiti, infatti, non sono frutto del peccato, ma della condizione creaturale, ben presenti anche nel paradiso terrestre, che perciò appartengono anche a Maria. Lo sviluppo di una fede sana, cioè, deve tener conto che, anche senza peccato l’uomo non è “naturalmente” all’altezza di Dio e che il Suo amore è possibile solo dentro a tali limiti, proprio perché Dio li vuole innalzare, quei limiti, non annientare. “La grazia non distrugge la natura, ma la suppone e la perfeziona” (San Tommaso d’Acquino).
Gilberto Borghi