Marrubiu e il pericolo della “sindrome della capanna”

E’ davvero piacevole in questi giorni di agosto, notare come la nostra Comunità di Marrubiu sia gioiosamente animata da tanti segnali di vita e da un desiderio di incontri e di relazioni. Motore trainante di questo piacevole fenomeno sono certamente i bambini e i ragazzi, i quali, capitanati dagli adulti, vivono la bellezza dello stare insieme grazie al ricco programma di eventi estivi, elaborato, come ogni anno, oramai da tempo, dall’Amministrazione Comunale.

Attraversare le piazze e le vie dove sono in atto manifestazione diverse a carattere sportivo, ludico e ricreativo, mi porta necessariamente a incontrare i fratelli e le sorelle, della Comunità a cui anche io oramai appartengo.

Mi contagia un senso di positività e di speranza perché vedo una vita in atto, processi di crescita che inevitabilmente sfuggono al controllo, attraverso manifestazioni poliedriche nella loro ricchezza.

Anche le celebrazioni liturgiche all’aperto nel piccolo parco di San Giuseppe, trasmettono a tutti un senso di maggiore libertà e serenità generale.

Sono giornate, queste di agosto, caratterizzate anche da nuove conoscenze, di marrubiesi che rientrano nel paese d’origine con le famiglie, con i figli cresciuti che colgono l’occasione per nuove conoscenze e assaporare l’autenticità delle relazioni che caratterizza i nostri paesi.

Devo confessare che, guardando attentamente la Comunità nel suo insieme, gli sguardi, il modo di relazionarsi e intrattenersi, mi viene in mente una caratteristica chiamata “Sindrome della capanna”.

Questo termine arriva dagli Stati Uniti e viene usato per indicare la difficoltà di alcune persone nel riprendere una normale vita sociale, dopo fatti traumatici, preferendo restare nell’effimera sicurezza della propria abitazione. La casa appare come l’unico posto che offre garanzie e sicurezze. Il fatto traumatico a cui alludo è chiaramente la pandemia. Alcune persone sono bloccate da uno stato continuo di ansia e di paura e, molto spesso anche di diffidenza e estraneità. Ciò porta a evitare luoghi pubblici e contatti sociali, prigionieri di uno stato emotivo privo di vitalità. Ovviamente queste sono impressioni del tutto soggettive che potrebbero rivelarsi infondate. Non voglio toccare il contesto e la realtà parrocchiale (esso meriterebbe una ben più approfondita riflessione!).

Nei giorni scorsi ho letto che secondo le stime della Società italiana di Psichiatria (Sip), oltre un milione d’ italiani soffre della sindrome della capanna: star dentro (nella propria abitazione, nella ristretta cerchia dei familiari) offre rifugio e sicurezza. Fuori c’è solo pericolo.

Chi ne soffre presenta sintomi come ansia generalizzata, paura di essere sopraffatti dalle aspettative del mondo esterno, timore di non saper affrontare l’incontro con gli altri, timore di contagiare ed essere contagiati. La casa del resto rappresenta, per la psicologia del profondo, l’immagine del proprio sé. Restare in casa, proteggendola da incursioni estranee, equivale a percepire sé stessi come protetti e messi in sicurezza. Ma una casa senza porte che si possano aprire per uscire e far entrare l’altro, diventa tana, bunker difensivo.

Pensando alle giovani generazioni, credo sia legato a questo il triste fenomeno conosciuto con il termine Hikikomori che descrive il comportamento di tanti giovani che fanno della loro camera e del loro computer il loro intero universo.

Credo che la Chiesa, la politica, e il mondo dell’associazionismo e del volontariato, specialmente nei nostri piccoli centri, possa fare qualcosa di significativo: affrontare questo tempo di grandi incertezze riconoscendo nelle diverse crisi dovute, anche a seguito della pandemia, inedite occasioni di confronti e preziose opportunità di radicali cambiamenti per una rigenerazione della politica, per una doverosa protezione e custodia del creato è un’umanizzazione della società.

don Alessandro