Morire: e dopo?

Il mese di novembre è tradizionalmente legato alla memoria dei defunti, come è anche segnato nel calendario liturgico al giorno 2. È stato detto che la morte è «la grande apolide» perché nessuna nazione vorrebbe assegnarle il diritto di cittadinanza. Eppure essa è ben insediata in ogni città o villaggio del mondo. Fin dalle prime righe della Bibbia risuona un gelido monito divino: «Certamente morrai!» (Genesi 2,16).

La morte fisica è il segno del limite della creatura umana e raccoglie in sé tante altre morti, quelle del peccato, della miseria, della violenza, della solitudine. Per questo le pagine bibliche, che sono una «storia» umana sia pure con la presenza di Dio, sono striate di morte fino a quella suprema di Cristo sul Calvario. È anche per questo che la paura del morire percorre tutte le persone della Bibbia, compreso Gesù che, davanti all’angelo della morte, invoca: «Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice» (Matteo 26,39). 

E dopo? L’Antico Testamento registra un’oscurità su questo futuro oltre il morire, introducendo lo Sheol, un oltrevita tenebroso, silente e spettrale. Ma la Rivelazione progressivamente apre quella tenebra. È ciò che avviene col patriarca Enoc (Genesi 5,24) e col profeta Elia (2Re 2) che attraversano la morte entrando nell’orizzonte eterno di Dio. È quello che è affermato anche per i giusti. 

Significativa è la professione di fiducia di due salmisti. «Tu non abbandonerai la mia vita negli inferi, né lascerai che il tuo fedele veda la fossa. Mi indicherai il sentiero della vita, gioia piena nella tua presenza, dolcezza senza fine alla tua destra» (Salmo 16,10-11). «Dio potrà riscattarmi, mi strapperà dalla mano della morte» (Salmo 49,16). Il Libro della Sapienza, alle soglie del cristianesimo, esalta ormai in pienezza la comunione con Dio oltre la morte: «Le anime dei giusti sono nelle mani di Dio […]. Agli occhi degli stolti parve che morissero […], ma essi sono nella pace. Anche se agli occhi degli uomini subiscono tormenti, la loro speranza è piena di immortalità» (3,1-4). Il Cantico dei Cantici, infatti, è convinto che l’amore riesca a tener testa anche alla morte: «Forte come la Morte è l’Amore!» (8,6). 

Ma è con la Pasqua di Cristo che il duello tra vita e morte giunge a uno sbocco: «La morte è stata ingoiata per la vittoria. Dov’è, o morte, la tua vittoria? Dov’è, o morte, il tuo pungiglione? Siano rese grazie a Dio che ci dà la vittoria per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo!» (1Corinzi 15,54-57). Cristo, il Figlio di Dio, passando all’interno della nostra mortalità fisica e spirituale, cioè morendo nella crocifissione, l’ha infranta e l’ha fecondata con un seme d’eterno e d’infinito. Egli è la «primizia» di coloro che sono morti e che risorgeranno, secondo la famosa immagine paolina. È per questo, allora, che tra i cittadini della Gerusalemme attesa, tratteggiata nell’ultimo libro della Bibbia, l’Apocalisse (c. 21), sarà per sempre assente la morte: «Egli tergerà ogni lacrima dai loro occhi, non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno» (21,4). «E noi saremo sempre col Signore » in una comunione di amore e di eternità (1Tessalonicesi 4,17). Un racconto giudaico noto anche al mondo islamico descriveva così la morte di Abramo, padre nella fede di tutti i credenti: «Abramo, quando l’angelo della morte venne per impadronirsi del suo spirito, disse: Hai mai visto un amico desiderare la morte dell’amico? Il Signore gli rivelò allora: Hai mai visto un amante rifiutare l’incontro con l’amato? Allora Abramo disse: Angelo della morte, prendimi!».

Gianfranco Ravasi