Rispetto ai tempi dell’antico messale la Chiesa è cambiata. Prendere atto del cambiamento è importante. Ma il cambiamento non sta solo in una formula. È tutta una visione che cambia, non si tratta soltanto di usare il latino. La riflessione di Riccardo Cristiano
La discussione sulla decisione di papa Francesco di ridare centralità alla liturgia voluta dal Concilio Vaticano II andrebbe affrontata partendo dal significato e dal valore della liturgia per la comunità ecclesiale. Ma per farlo può essere utile partire dalla fine, e cioè dalla correzione in corsa alla quale la reintroduzione facoltativa della celebrazione in latino costrinse il Vaticano.
Il decreto (motu proprio) di Benedetto XVI che liberalizzò l’uso della messa in latino apparve il 7 luglio del 2007. Nel febbraio del 2008, avvicinandosi la Pasqua, il Vaticano comunicò che quel messale veniva corretto, non poteva essere usato così come era. Come mai? Perché quando papa Giovanni XXIII fece rimuovere dal messale, in occasione del Venerdì Santo, l’espressione “perfidi giudei” rimase però quella per la “conversione degli ebrei”. E con qualche mese di ritardo si pose rimedio. Come mai?
Perché rispetto ai tempi dell’antico messale la Chiesa è cambiata. Prendere atto del cambiamento è importante. Ma il cambiamento non sta solo in una formula. È tutta una visione che cambia, non si tratta soltanto di usare il latino. La questione della conversione era una questione che la Chiesa che non riconosceva la libertà religiosa non vedeva come oggi che l’ha scelta, con il Concilio. Dunque non è una questione di “messa in latino”. Certo, qualche nostalgico, soprattutto dei canti, molto più belli nella loro versione originale (basti pensare ai canti gregoriani), ci sarà. Ma la riforma della liturgia ha dato un volto nuovo alla Chiesa.
Non solo verso gli altri, ma anche verso di sé. Come tutti sappiamo la riforma oltre a passare dal latino alle lingue vive (da qualcuno ancora dette “volgari”) ha anche girato gli altari. Cosa vuol dire? Vuol dire, detto molto semplicemente da un non liturgista, che nella liturgia conciliare si celebra insieme. Come ha detto tanti anni fa don Luigi Ciotti, “un immenso cambiamento: finalmente si entrava come comunità dentro la parola di Dio. Prima c’erano due chiese, quella dei preti e quella dei fedeli: con la riforma liturgica si è capito che l’altare è una tavola con tanti commensali”.
Questa liturgia spiega perché Francesco parli tanto di Chiesa sinodale. Sinodo vuol dire “camminare insieme”. Quindi si cammina insieme, in un cammino che riguarda e coinvolge tutti i fedeli, un cammino comune, nella storia, con la storia. La riforma dunque è un processo e con Francesco la Chiesa non sta più lì ferma a interpretare il Concilio: cambiamento nella continuità, continuità nel cambiamento? Basta: ora la Chiesa è chiamata ad attuare il Concilio. E i 50 anni passati dal Concilio rendono evidente che tra le due liturgie passa uno spazio culturale che sembra di secoli, di visioni, di concezioni, di culture.
La fase di passaggio è stata lunghissima, forse troppo. Gli eccessi post-conciliari che lo stesso Francesco riconosce nella sua lettera di accompagnamento al nuovo decreto (motu proprio) che limita l’uso dell’antico messale si sono accompagnati ad annacquamenti, retromarce, paure. Ma non si può restare per sempre in mezzo al guado. Perché i tradizionalisti non rimpiangono il latino, i bei canti, la loro musicalità. Qualcuno sarà anche nostalgico, ma la libertà accordata sin qui è stata davvero, come afferma Francesco, usata per trasformare il vecchio rito in un collante anti-conciliare: “È sempre più evidente nelle parole e negli atteggiamenti di molti la stretta relazione tra la scelta delle celebrazioni secondo i libri liturgici precedenti al Concilio Vaticano II e il rifiuto della Chiesa e delle sue istituzioni in nome di quella che essi giudicano la ‘vera Chiesa’.
Si tratta di un comportamento che contraddice la comunione, alimentando quella spinta alla divisione – ‘Io sono di Paolo; io invece sono di Apollo; io sono di Cefa; io sono di Cristo’ –, contro cui ha reagito fermamente l’Apostolo Paolo. È per difendere l’unità del Corpo di Cristo che mi vedo costretto a revocare la facoltà concessa dai miei Predecessori. L’uso distorto che ne è stato fatto è contrario ai motivi che li hanno indotti a concedere la libertà di celebrare la Messa con il Missale Romanum del 1962. Poiché «le celebrazioni liturgiche non sono azioni private, ma celebrazioni della Chiesa, che è sacramento di unità», devono essere fatte in comunione con la Chiesa. Il Concilio Vaticano II, mentre ribadiva i vincoli esterni di incorporazione alla Chiesa – la professione della fede, dei sacramenti, della comunione –, affermava con sant’Agostino che è condizione per la salvezza rimanere nella Chiesa non solo con il corpo, ma anche con il cuore”.
Molti ritengono evidente che l’esperimento unitario tentato sin qui abbia portato, contro le proprie intenzioni, le posizioni anticonciliari a sentirsi legittime nella Chiesa. Era possibile andare avanti così?
Riccardo Cristiano